Chiaverotti riprende lo spunto di un classico del noir, "D.O.A." (in italiano "Due ore ancora") di Rudolph Maté: il protagonista scopre di essere stato avvelenato e ha pochissimo tempo a disposizione per trovare il responsabile (e, possibilmente, un antidoto).
Con una premessa simile, pur sapendo che non può andare a finir male per il nostro eroe, la tensione si crea quasi automaticamente: eppure, per una storia nella quale lo scorrere del tempo è un elemento narrativo chiave, la maggior parte degli errori/difetti della sceneggiatura ha a che vedere proprio con una questione di
tempi, in senso vario.
Già la sequenza iniziale, pur magnifica, lascia un po' insoddisfatti: dopo le prime pagine arriva la tavola con il titolo, visivamente di grande impatto, e l'immagine dell'uomo che sprofonda nella sabbia è di quelle che restano nella memoria... e lì ci si sarebbe dovuti fermare: perché quando, girando pagina, lo vediamo riemergere senza troppi patemi e poi andare da Dylan, la potenza del prologo ne risulta inevitabilmente sminuita. Così come sarebbe stato più efficace, credo, un inizio
in medias res che ci mostrasse Dylan già in pericolo di vita all'inizio dell'albo -un po' come nel film citato sopra, o se preferite un paragone dylaniano un po' come all'inizio di "Horror Paradise".
Poi, a meno che io non sia terribilmente rimbecillito, mi pare che ci siano forti problemi nella ricostruzione degli eventi che compongono la prima parte dell'albo: perché inizialmente tutto sembra svolgersi in continuità, fra la tarda sera e la notte, ma quando ritorniamo a Craven Road scopriamo che Groucho è andato al cinema (peraltro quando, subito dopo, Dylan ha la visione dell'uomo impiccato alla gru ed esce in fretta di casa, scopriamo che è ancora (o già?) scuro).
E quindi non si capisce nemmeno perché Melanie, a pagina 82, dica a Dylan di averlo visto parlare con Saunders "ieri mattina", visto che Dylan si reca nei pressi della serra quando è ancora notte, dunque poche ore dopo la morte di Fenton.
Sarei stato anche disposto a trascurare queste incongruenze temporali, ascrivendole alla fretta o alla distrazione, se non fosse che pure gli altri snodi narrativi sono gestiti male: non solo la questione dei replicanti vegetali è lasciata nel buio quasi assoluto (l'unica cosa che emerge è il pessimismo -per non dire il pregiudizio- antiscientifico di Chiaverotti, che del resto era evidente già dai tempi di "Goblin" -a proposito, sono quasi certo che il termine "simbiosi" sia usato scorrettamente), ma le loro stesse caratteristiche vengono tranquillamente contraddette nel corso del testo, come accade quasi sempre quando si hanno per le mani fantasmi
et similia, e non ci si riesce a decidere su quale sia il loro campo d'azione: Melanie dice che, dopo la trasformazione, non provano più dolore né odio, però è lei ad avvelenare Dylan e a far fuori Saunders, prima ancora di sapere cosa possono aver intuito.
A proposito: Dylan chiede a Saunders se ha mai notato nulla di strano nella serra, e Saunders risponde di no... poi, in qualche momento, e per qualche ragione, gli vengono dei sospetti, e allora qual è la prima cosa che fa? Quello che chiunque farebbe in una situazione simile: va in una biblioteca a consultare un testo medievale di magia nera, è ovvio!
Se l'albo non sprofonda definitivamente sotto tutta questa confusione e queste approssimazioni di scrittura è unicamente merito di Casertano, che qui vira in direzione di una sorta di grottesco realistico alla Crumb, regalandoci dei mostri bellissimi e almeno una sequenza incredibilmente evocativa, ossia quella del rituale stregonesco nel bosco, molto audace per gli standard bonelliani e splendidamente inzuppata d'inchiostro (benché di fatto non sia che una deviazione accessoria, una falsa pista messa in piedi un po' tardivamente e frettolosamente, forse per giustificare un titolo altrimenti incomprensibile).