Il club di Dylan Dog tra horror e ragazze

di Stefano Bartezzaghi
LA REPUBBLICA, VENERDÌ 24 SETTEMBRE 2004

TIZIANO Sclavi è un narratore geniale, appartato e misconosciuto. Se non avesse inventato Dylan Dog sarebbe un po’ più appartato e misconosciuto, ma
non molto meno geniale. Lo sanno i lettori del suo ultimo romanzo, Non è successo niente, uscito nel 1998 da Mondadori: testo imponente, ironico e impetuoso, che attende con una pazienza contraddetta dallo scetticismo del suo autore il più vasto successo che merita.
«Mi hanno detto: — tu non sei uno scrittore, sei un letterato — ».

E lei come l’ha presa?
«In effetti io non sono un narratore del genere di Stephen King o John Grisham: inventano persone e destini, e vanno avanti a cento pagine al giorno. A me interessa di più il linguaggio, la struttura. Nei miei romanzi, bene o male, ho sempre parlato di me. Nei fumetti invece mi diverto molto a inventare. Soprattutto i cattivi: sono fondamentali ».

Quando Dylan Dog è uscito l’alieno sembrava lui: un investigatore dell’incubo, orrore e terrore? Mah…
«All’inizio Dylan Dog era strano. C’era un interesse nascente per l’horror, lo splatter, squartamenti e cose del genere. Ma io volevo due cose. La prima era un personaggio ricorrente, che allora mancava, protagonista di storie che magari finiscono male o non finiscono ».

E la seconda?
«La seratina fra amici. Sa quando ci si trova, uno cita una battuta di Alberto Sordi e poi si va avanti per un’ora a ricordare Sordi e le sue battute? Volevo questo, un club che condivide il gusto per le stesse citazioni, le battute, anche le copiature, perché come diceva il grande Totò tutti sono capaci di fare, è copiare che è difficile. E poi la musica: purtroppo non si può sentire, ma c’è»

A proposito di battute, c’è chi ricorda ancora il paginone «Sottosopra» del Corriere dei Ragazzi, a metà degli Settanta: l’Omino Bufo, le battute spiazzanti, un’Helzapoppin discreto, con qualche sentore di Cochi e Renato…
«Ho messo anche dentro a Dylan Dog quell’umorismo che più surreale è, meglio è. Ricordavo il connubio di surreale e nero dei Monty Python e lo choc della prima volta che ho visto un film dei fratelli Marx… ».

… da cui Groucho, la spalla di Dylan Dog…
«Sì, ma per me Dylan Dog doveva essere un solitario, molto più vicino a Philip Marlowe di come è poi risultato. A dargli una spalla mi hanno convinto da Bonelli, alla casa editrice, e hanno fatto benissimo. Il fumetto è per sua natura un’opera collettiva; tranne quei rari casi, alla Hugo Pratt, in cui l’autore fa tutto, nel fumetto si è in tre: sceneggiatore, illustratore e lettering.
Da Bonelli in particolare si discute moltissimo, di tutto, in tanti. Poi certo, una volta trovata la base comune, l’autore manda tutti fuori dai piedi: e di lì in poi ci pensa da solo ».

La miscela di horror e grottesco non sembra molto italiana.
«Ero assolutamente solo. Quando ho scritto il romanzo Dellamorte Dellamore, mi hanno detto “ma lei è matto, queste cose non vanno”. Infatti ho dovuto aspettare il successo di Dylan Dog per riuscire a pubblicarlo».

Dellamorte Dellamore e Dylan Dog: D. D. in entrambi i casi.
«Non ci avevo mai pensato»

Cosa l’ha più sorpresa del successo del suo personaggio?
«L’horror era tipicamente maschile, ma con Dylan Dog per la prima volta nella storia della Bonelli abbiamo acquistato un grosso pubblico femminile: ci siamo accorti
che le lettere che arrivavano erano quasi per la metà di ragazze. Forse erano innamorate di Dylan Dog, e mi dispiace perché allora non erano innamorate di me».
Quando Dylan Dog ha esordito la paura era un fatto quasi privato. Ma ora, quando ogni giorno le prime pagine dei giornali usano le parole Terrore e Orrore?
«La paura della morte c’è sempre no”. stata: specie nell’infanzia, e infatti le fiabe sono racconti horror tremendi, e nell’adolescenza, che ha drammi esistenziali a volte acutissimi.Però per gli editori e i produttori era un tabù e l’horror era confinato come il porno e i cosiddetti nudies, con cui anzi veniva spesso mescolato. Finito il tabù, hanno fatto tantissimi fumetti e film, sono arrivati anche gli scrittori — tra cannibali e mica cannibali — e c’è stata una saturazione. Ora magari abbiamo sotto casa la bomba di Bin Laden… L’horror raccontato mi sembra in calo, e anche a me oggi verrebbero da scrivere commedie, al massimo Arsenico e vecchi merletti,
come si vede anche dalle ultime puntate di Dylan Dog che ho sceneggiato ».

In Dylan Dog sono presenti anche ingredienti insoliti: temi sociali, psicoanalisi, perle come la strepitosa citazione di un dialogo fra Umberto Eco e Carlo Maria Martini, nell’albo «Lassù qualcuno ci chiama» che chiude la trilogia ufologica che ora si ripubblica…
«Avevo paura che il Semiologo e il Cardinale mi querelassero… L’importante è non fare forzature: non è che si decide a tavolino di fare un albo sugli immigrati clandestini. Il risultato è che sui problemi sociali che appaiono “di sinistra” anche lettori di destra scrivono dicendo “su questo e su questo sono d’accordo anch’io, magari su quest’altro meno…”. In quanto alla psicoanalisi, la conosco solo dal lettino, non ho letto quasi niente. Però il primo albo della trilogia ufologica, a pensarci, è tutto una seduta psicoanalitica, con i ricordi di copertura e tutto il resto».

Oggi il Super Eroe scopre di non avere una psiche altrettanto super: Spiderman II tartassa un po’ lo spettatore con i problemi esistenziali dell’Uomo Ragno…
«Dylan Dog è problematico: non è un ragazzino, ha un passato difficile, è stato alcolizzato. Ma se uno esce dal college, biondo, bello e di gentile aspetto, ha superpoteri per cui io mi taglierei un braccio, e in più si lamenta anche, io gli do due sberle. Almeno Superman aveva il pudore di non lamentarsi».

E Harry Potter?
«Non lo leggerò mai! Odio la fantasy, ho letto qualche pagina e visto il film, ma appena ci sono scope che volano… Per lo stesso motivo ammiro King ma non leggo la serie della Torre Nera; né mi spiego la mania per il Signore degli Anelli: uno dei romanzi più brutti che io conosca».