Pittura ed anima

L’ultimo numero di Dylan Dog, ha il merito niente affatto banale, di porre al centro della vicenda la stretta connessione fra la pittura, e gli stati d’animo della psiche e il male come forma ancestrale e crudele.
Molti conoscono il primordiale timore delle culture primitive circa la fotografia, capace di imprigionare l’animo e, in qualche modo, rubarlo al possessore.
Ma ciò è anche presente nella pittura?
Certo, Stano in questa sua prima fatica come autore di Dylan Dog, pare far passare in secondo piano questo aspetto, secondo me molto importante ai fini della vicenda e come argomento generale. Chiunque si sia messo ai pennelli, per creare un’opera, sia essa stupenda o brutta ( conta poco ) sa quanto la tela vuota spaventi, quanto il quadro pare estirpare la forza, l’anima, le energie di chi lo dipinge.
Pittori di superba abilità emozionale, come VanGogh, possiedono il dono di trasmettere dolore, inquietudine, perfino paura dalle loro tele. Gli autoritratti di VanGogh a livello personale, mi risultano dolorosi e difficili da guardare, se contemplati con attenzione. Pare di percepire il disagio mentale, quasi che questo sia stato assorbito dalla tela e da questa scaturisca continuamente, con una forza creativa al limite dell’estasi.
Il celeberrimo “Urlo” di Munch è, non per niente, il quadro più spesso rubato e ammirato al mondo, possedendo una forza tanto solida da sembrare un’entità viva e presente.
Ora la domanda che il racconto mensile pone è anche questa: può realmente un quadro, almeno nella volontà di chi lo ha composto, voler emanare male, dolore, sofferenza ?
La risposta è ovviamente no, eppure la nostra mente non razionale spesso cade in questa trappola.
La famosa sindrome di Stendhal o sindrome di Firenze, è una reale forma di disagio che colpisce le persone particolarmente sensibili alla bellezza artistica ( posso dire che personalmente ho avuto crisi di pianto davanti a capolavori ammirati in varie pinacoteche, senza che in me vi fosse una particolare forma di disagio psichico nell’attuale ) e che accomuna colture diverse fra loro, come ad esempio quella giapponese con la nostra.
E’ solo questo, però? Oppure davvero, certe persone, possono ricevere dalla tela una sorta di energia psichica, un forza emozionale tale da rimanerne sconvolte?
Certo, nel numero 315 l’emozione si trasmette attraverso una figura, un’entità malvagia che permea la tela di Bruegel dotata, in ogni conto, di enorme impatto visivo e drammatico.
Altri quadri, con cruente scene di lotta, di morte ( uno su tutti il Battista del Caravaggio ) spesso scatenano reazioni improvvise e incontrollabili.
Suggestione di fronte a scene particolarmente drammatiche e violente ? Forse. Ma non solo.
Rammento, a livello personale, il mio senso di assoluta emozione quando per la prima volta vidi lo splendido “Malinconia” di Hayez a Milano. Esso ritraeva una donna immersa in una sorta di foschia melanconica, e mi pare che si possa catalogarlo come una delle migliori rappresentazioni del male di vivere. Ebbene, esso mi ha sconvolta, creandomi disagio.
E’ noto che la religione mussulmana preferisca evitare dipinti e raffigurazioni del profeta Maometto. Forse per la paura che tali immagini possano generare un’attrazione di difficile spiegazione e di certo fanatismo idolatra?
Forse la forza del colore, composto con tale straordinaria bellezza e bravura, riesce davvero a scavare dentro le nostre menti e a trasmetterci qualcosa. Un numero ancor più esplicito in tal senso fu “L’incubo dipinto”, che non suggeriva nulla ma anzi, mostrava esplicitamente quale potesse essere la forza della pittura e la sua, in quel caso, connotazione satanica.
In passato dipinti troppo espliciti nella raffigurazione del sesso o delle nudità in genere venivano distrutti o coperti e lo stesso autore finiva con passare guai spesso anche seri. Ma se si trattava di dipingere dolore, morte, malvagità, il male insomma, tale tema affascinante e di enorme potenza visiva, il quadro veniva tranquillamente accettato, spesso addirittura consigliato come strumento di monito e di pesante cupezza spirituale.
Quasi tutti i grandi pittori del passato, non hanno resistito alla tentazione ( è il caso di dirlo ) di raffigurare il male, sia esso la morte oppure il demonio vero e proprio. Giotto, Michelangelo, Leonardo, Caravaggio… nessuno ha resistito a questo richiamo di quello che oggi chiameremmo “dark side “, lato oscuro. Forse la forza di tale richiamo era dentro l’artista stesso, e la pittura ha solo mostrato il percorso. E certo pittori geniali e immensi come quelli appena nominati, erano in possesso di una tale abilità creativa da far sprigionare forza e anima ai loro lavori. Eppure l’idea che il male sia, in fondo, appena al di là della vita reale, un riflesso nello specchio o in una tela, è idea antica e profondamente dylandoghiana.
Inutile rammentare Attraverso lo specchio ad esempio. E nel cinema, specchi, dipinti e fotografie, sono quasi sempre stati ingressi e varchi per forze arcane e crudeli. O per la follia del doppio, intesa come parte malvagia di un serial killer, o di un indemoniato.
Mirabile è l’esempio di Profondo Rosso di Dario Argento, quando il viso deforme della sadica assassina, appare in uno specchio confuso con tondi e quadri dipinti. Geniale esempio di realtà pittorica folle, mescolata alla reale follia umana.
Il numero in questione pare dirci che in fondo il male è una entità viva, presente, solida. Che trova varchi dalle sofferenze umane ( nel caso quello di Moheena, la protagonista ) per diffondersi e colpire. E forse che la tela, come diceva Michelangelo del marmo, in realtà già cela ciò che dev’esservi dipinto. Il pittore è mero strumento. E forse il disagio, la paura, il male, posseggono una forza ancor più drammatica e profonda dell’estasi e del bello. E con tale forza, vengono alla luce.

Dogares.

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