Il post di ottobre 2013 – Una nuova vita
Come dicevamo in occasione della premiazione del post del mese scorso, sulle ultime uscite del corso precedente c’era stato un fisiologico calo d’entusiasmo dei nostri fan dylaniati, ormai impazienti di iniziare a commentare le storie della ormai mitologica fase uno… e infatti così è stato, nel bene e nel male i commenti, dai più ottimisti ai più feroci sono stati senza dubbio molto più numerosi e allo stesso tempo molto più appassionati, si spera per il forum e per il fumetto che continui a essere così ancora a lungo.
E per un albo che senza dubbio, a prescindere dai suoi meriti e demeriti passerà alla storia di Dylan, non poteva che ospitare un autore molto speciale, uno dei rarissimi autori/disegnatori della serie, il primo cronologicamente dei tre, Carlo Ambrosini, che per giunta tornava sulla serie regolare dopo lunga latitanza. La sua (doppia, quindi) fatica è intitolata, anche in riferimento alla testata come Una nuova vita, e ha la copertina seguente che pure inaugura un nuovo corso, ai pennelli c’è sempre il solito Stano, ma il suo stile abbandona l’espressionismo in favore di un maggiore richiamo alla pop-art.
Dopo aver tanto diffusamente parlato dell’albo e di quello che rappresenta, mi pare il caso di iniziare a parlare del premiato del mese… va ancora una volta a un pluripremiato, ormai la competizione si fa sempre più dura, e il livello per essere premiati si fa sempre più alto… dateci dentro, perché dovrete strappare il premio a…
Nikolaj Stavrogin
Di seguito il suo post, articolato ed esaustivo:
Concordo pienamente con Rimatt, anche per quanto riguarda La bomba!.
Un conto è giudicare l’aria di rinnovamento, un conto è valutare una storia.
Sono, dovrebbero, essere atti ben distinti.
Il rischio è quello di sopravvalutare qualunque cosa porti il marchio a fuoco recchioniano, anche se il suo spettro aleggia solo in fase di supervisione [tipo appunto il recente Speciale].
Non un capolavoro, non il migliore Ambrosini, neanche ai disegni. Per l’entusiasmo c’è tempo.
Anzi, mi spingo oltre: in questa storia ho visto ben poco di ambrosiniano.
Il procedere a freno a mano tirato ha prodotto una sorta di via di mezzo fra la Barbato e Chiaverotti.
Fase barbatiana –> ho trovato quasi inedito questo Ambrosini così lineare e comprensibile, almeno fino a pagina 94.
Intendiamoci, è sicuramente una storia complessa e ricca di piani di lettura [anche perché si sviluppa e intreccia nell’ arco di tempo di circa un secolo], ma alla fine, complice anche qualche spiegazionismo laterale, tutto torna bene o male al suo posto, diavolaccio compreso.
Personaggi di grande spessore, vitalità e fascino, tranne i due principali. Mi duole rilevare che si tratta di una storia con Dylan Dog, e non di Dylan Dog. L’indagatore dell’incubo, oltre ad essere marginale e poco attivo, è a tratti poco riconoscibile, immerso in un’ironia che gli gravita attorno senza appartenergli direttamente [vecchietta di pag. 21, tizi al bar].
Groucho, per il poco che appare, è piuttosto pimpante, ma è dotato di battute davvero deprimenti. Non ho mai condiviso il pensiero paraculo “Groucho non deve far ridere, deve inorridire”. Il Groucho di Sclavi faceva [anche] ridere. Ricordo di aver sorriso anche con qualche Groucho rujano, e pure Faraci lo gestiva con una certa agilità. La Barbato stessa, che urla spesso all’impossibiltà di utilizzarlo, lo rende assolutamente devastante nella prima parte de Il pifferaio magico.
Qui, semplicemente, non ci siamo.
Fase chiaverottiana –> Questa è evidente: il controfinale.
Se Chiaverotti veniva spesso criticato per il twist nonsense che chiudeva i suoi albi, qui non siamo molto distanti.
Con una differenza: i finali di Chiaverotti comunicavano, ma comunicavano in un’altra lingua rispetto a quella dell’albo; questo finale è completamente muto. Nulla aggiunge, nulla toglie, nulla intende comunicare direttamente e con chiarezza al lettore. L’ultimo pezzo della composizione rimarrà vita natural durante in un angolo della mente brillante di Ambrosini: affascinante, ma questa non è comunicazione.
Ce n’era davvero bisogno, alla luce di quanto scritto sopra, cioè della sostanziale trasparenza della storia principale?
Un conto è Morgana, o Il guardiano della memoria, albi che dichiarano subito l’intento a-comunicativo e lo lasciano palesemente sulle spalle del lettore. Qui, forse, si poteva evitare.
Anche perché la panacea radical chic dei geni incompresi [cioè la facile equazione “non si capisce una sega = CAPOLAVORO”] non sempre funziona, e soprattutto [e questo sembra il caso] non sempre è atta alla scopo.
Disegni: l’espressività ambrosiniana ha sempre una certa potenza, e alcune figure rimarranno certo indelebili nella loro angoscia prettamente “fisica”: il disagio di Antoine è anche dichiaratamente “estetico”, sbattuto con forza in faccia all’utente. Il disegno è parte delle linee più nascoste della narrazione, in questo caso.
Mi stupisce il fatto che, ultimamente, non pochi autori abbiano qualche problema con il viso di Dylan [vedi anche l’albo precedente]. Pag. 13, 18, 23, 50 e altrove: Dylan è bruttissimo.
Credo che Ambrosini, con il tempo, sia addirittura migliorato; qui è un pelo sotto i suoi standard recenti, già evidenziati da qualcuno sopra di me.
Chiaro, è un albo che rientra facilmente fra i top di questo 2013, fra i primi tre almeno.
Da una parte è un “ti piace vincere facile”; dall’altra, è l’ ennesima [in rapporto alla sua scarsa produzione] dimostrazione della grande maestrìa, della grande personalità con cui Ambrosini riesce a manovrare la creatura di Sclavi.
Difficilmente qualcuno può tenergli testa, anche quando si limita a buone storie come questa.
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