Venticinque anni da paura
Venticinque anni da paura
di Loris Cantarelli
Trascrizione dell’intervista pubblicata su Fumo di China n.197. Ottobre 2011.
Forse non tutti hanno ben chiaro “come sia accaduto che Dylan Dog ci si conficcò nella testa e nel cuore da non uscirne più” (Come ha scritto Matteo Stefanelli a margine della bella mostra cremonese sul quarto di secolo dell’Old Boy), ma di certo è impossibile non “ricordarsi del lavoro di Tiziano Sclavi, poderoso rabdomante degli anni del riflusso”. Dopo averlo incontrato dieci anni fa, con la sua deliziosa moglie Cristina grazie a un reportage dal suo buen ritiro di Venegono Superiore, FDC è tornato a trovarlo in una domenica pomeriggio di fine maggio, chiacchierando con calma serafica seduti in soggiorno tra cani e gatti degli argomenti più disparati, dall’horror vecchio e nuovo al famigerato “logorio della vita moderna” (in particolare quello della metropoli milanese contrapposto alla pace silente di una villetta nel varesotto), di editoria e crisi del lavoro, di cinema e serie televisive, ma anche del Fra Salmastro da Venegono di Enzo Lunari, finendo inevitabilmente a parlare dei primi venticinque anni dell’indagatore dell’Incubo.
Nel parlare della nascita di Dylan, mi ha sempre colpito che è contemporanea all’uscita negli Stati Uniti del Watchmen di Alan Moore e del Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller: in quel 1986 c’era qualcosa bell’aria o sono solo coincidenze?
Credo che siano coincidenze, ma di quelle strane. La più famosa è quella del 1895, quando nacquero ufficialmente, tutti insieme, la fantascienza, i fumetti e il cinema. Comunque a livello mondiale Alan Moore e Frank Miller hanno contato molto più di me.
Però le migliaia di lettere e le tirature “da far paura” che nel 1992 hanno addirittura superato quelle di Tex furono un bello schiaffo a chi pensava che in un fumetto non si potessero rappresentare sentimenti e inquietudini di una generazione. Il fenomeno ti ha stupito o gratificato?
Ero e sono tuttora sbalordito e anche un po’ spaventato. Non è stato un successo cercato, noi ci accontentavamo di vendere le cinquantamila copie necessarie allora per tirare avanti e non chiudere. Il successo è stato spiazzante e ha portato responsabilità nuove nei confronti di una simile massa di lettori.
A parte le Clark e il Maggiolino, quanto hai messo di tuo in Dylan?
In fondo, non tanto: fobie, ironia, un po’ di filosofia spicciola. Per il resto, magari fossi come lui! Ripeto, lo invidio.
Oltre a essere riuscito a scardinare l’annosa distinzione tra fumetto d’autore e popolare, che cosa devi alla tua creatura più famosa?
Mi ha portato un po’ di soldi, che non sono mai da disprezzare. E poi ha creato un’attenzione nuova al mondo dei fumetti da parte della stampa e degli intellettuali, una cosa che mi fa molto piacere.
Fin dall’inizio colpiva il rapporto del protagonista con le donne, sia nel senso delle sue relazioni sentimentali che nel fascino esercitato sulle lettrici, fino ad allora quasi trascurate dal fumetto italiano. Quanto c’era di calcolato e quanto era una tua scelta precisa, pur filtrata dalla finzione letteraria?
Di calcolato niente, se non il fatto che di ogni storia volevo fare un piccolo film e in un film che si rispetti la storia d’amore c’è sempre. Da notare che Dylan è all’opposto di me in queste faccende, e un po’ lo invidio, ovvio. Perché poi il mix sia piaciuto alle lettrici, e anzi abbia creato tante nuove lettrici, resta un piacevole mistero.
Anche sul Dylan “amico degli animali” si è detto di tutto, ma non è difficile capire che anche questo è un immediato riflesso della tua sensibilità. A casa poi sei circondato da cani e gatti, tanto diffusi nella vita quanto nei fumetti.
Di tutti i premi che ho vinto, quello che mi ha fatto più piacere è stato il Premio Rotteri: I buoni della strada, che mi hanno dato a Trieste nel 2006 proprio come amico degli animali. Gli animali sono l’innocenza.
Invece non si è parlato molto di quanto le tue storie nascano dalle fiabe. Ma dopo oltre trecento episodi come si fa a evitare la ripetitività? Oppure non serve, perché tanto vogliamo sentirci raccontare sempre le stesse cose?
Non credo che il pubblico di Dylan ami la ripetitività come per esempio quello di Tex, anzi vuole sempre cose nuove. Per questo l’impegno è e deve essere grande da parte della casa editrice. E dopo venticinque anni è sempre più difficile. Ma non impossibile: bisogna affidarsi, come facciamo, a collaboratori giovani e freschi. E comunque, proprio perché Dylan nasce dalle fiabe nere, la materia prima è quasi inesauribile.
Una volta hai detto che la fantasia esisterà sempre, perché è l’unica vera realtà. Per citare Roberto Vecchioni, “niente ha più realtà del sogno”. Quanto dobbiamo della nostra vita ai sogni?
Io, molto. Specialmente un tempo avevo dei bellissimi incubi, mi svegliavo di notte per prendere appunti e il giorno dopo li trasformavo in storie.
La “sgangherabilità” post-moderna che Umberto Eco ha usato per spiegare gran parte del successo di Dylan Dog è più che altro una tecnica linguistica… ma perché abbiamo così bisogno di leggere e ascoltare storie?
Sono cibo per la mente, non si può vivere senza mangiare.
Ti va di darci qualche esempio di romanzi libri e film che ti hanno positivamente colpito negli ultimi tempi e, se ce ne sono, di serie televisive che hai seguito?
Ho seguito e amato Lost, a parte il finale indegno, e 24, e vedo sempre il Dr. House. Per quanto riguarda i libri, ho letto parecchi gialli svedesi di Henning Mankell, un vero maestro. Poi mi è piaciuto un librino di Franco Arminio, Cartoline dai morti. Ma il più bel libro degli ultimi anni resta sicuramente quello di racconti dell’immenso John Grisham, Ritorno a Ford Country. Tra gli ultimi film cito Il discorso del re, poi Hereafter di Clint Eastwood, The Box, tratto da Richard Matheson, L’uomo nell’ombra di Roman Polanski e un bellissimo grande film di Bolliwood, Il mio nome è Khan.
Qualche tempo fa hai donato diecimila volumi alla Biblioteca “Bruno Munari” di Venegono Superiore. Quanti te ne sono rimasti, e quanti dischi e DVD riempiono ancora le tue giornate?
Dalla donazione sono passati alcuni anni e gli scaffali hanno fatto in tempo a riempirsi di nuovo. Libri, film e musica sono essenziali. Come diceva Erasmo da Rotterdam, se ho i soldi compro dei libri, se ne avanzano compro da mangiare.
Di cosa parlava la tua storia beve intitolata Dylan Dog disegnata da Lorenzo Mattotti a fine anni Settanta?
Se non ricordo male, era un western. Credo che le tavole, una decina, le abbia ancora Mattotti…
Lo splatter come genere è finito, ma in Dylan Dog l’horror è sempre stato poco più di un pretesto. Dopo l’inevitabile saturazione grandguignolesca, non stupisce la tua svolta verso la commedia alla Neil Simon… oggi ti sembra la via migliore per rappresentare l’orrore quotidiano?
Si, direi di sì. I gusti cambiano, l’horror non mi piace più come una volta. Bisogna anche dire che gli horror belli e che resistono nel tempo sono pochissimi. In ogni caso, tra Woody Allen e uno splatter scelgo senza dubbio il primo.
Come hai spiegato benissimo qualche anno fa, “la paura è uno di sentimenti che aiuta a vivere”, perché ci mostra i nostri limiti, e non sempre è irrazionale: “A volte è un codice, un allarme che suona nella testa e ci avverte della portata di un rischio”. Tutto questo quanto ciba la catarsi di un autore?
La paura è fondamentale. Senza la paura del fuoco, per esempio, finiremmo tutti bruciati. E raccontare le proprie paure, condividerle, contribuisce senz’altro a renderle più sopportabili.
A citazione simbolica dei disegnatori con cui hai lavorato in questi decenni mi piace ricordare Attilio Micheluzzi, creatore grafico del tuo Roy Mann e del commovente Ghor nello Speciale Dylan Dog n.2. Com’è stato lavorare con lui?
Di Micheluzzi ricordo la signorilità e l’entusiasmo. Me lo vedo ancora dire cose tipo: “Entro un anno straccio l’Hugo Pratt”. L’ho conosciuto al Corriere dei Ragazzi, quando di me ha detto: “Ah, che piacere incontrare un giovane a modo!”. Anni dopo, alla Bonelli, eravamo io, lui e Decio Canzio. Canzio gli diceva: “Vedi, Attilio, Tiz è di estrema sinistra, mentre tu sei un rappresentante della destra storica”. E Micheluzzi a me: “Nessuno è perfetto. Parlo per lei, naturalmente”. Sceneggiare per lui era gratificante, perché si divertiva davvero a leggere le battute di Roy Mann, rideva come un matto e non era certo avaro di complimenti. Un grande davvero, mi manca molto.
Cosa ti piacerebbe raccontare ancora?
Sono vecchio, preferisco leggere le storie dei giovani.
C’è qualcosa che nessuno ha mai chiesto e vorresti dire?
Non amando le interviste, vorrei che nessuno mi chiedesse più niente.
6 Comments
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