Il disegnatore che scrive – Intervista a Fabio Celoni
L’ospite di questa puntata è un amico con cui da tempo abbiamo il gran piacere di scambiare qualche chiacchiera virtuale sul forum di Cravenroad7.it. E come vi accorgerete leggendo, le considerazioni di Fabio Celoni – disegnatore, copertinista e sceneggiatore – sono puntuali, affascinanti e argute.
Bando alle ciance e ciancio alle bande, allora, e deliziatevi di questa lunga intervista, ricca di interessanti retroscena! Soprattutto chi è rimasto avvinto dalle atmosfere de Il vecchio che legge non mancherà di essere soddisfatto, così come chi sia incuriosito dagli strumenti tecnici del mestiere di disegnatore.
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Caro Fabio, dal momento che ormai da qualche anno intervieni sul nostro forum, possiamo tagliare i convenevoli e ringraziarti direttamente per la disponibilità.
Considerate tagliato tutto il tagliabile. E grazie a voi.
Per rompere il ghiaccio, dicci qualcosa tu stesso della tua formazione, dei tuoi modelli (se ne hai) e della tua carriera.
Non c’è molto da dire, da bambino innamorato dei fumetti sono diventato un adolescente innamorato dei fumetti, quindi ho frequentato una scuola dove mi potevano insegnare qualcosa di tecnico sui fumetti. Facendomi capire che un conto era disegnare personaggini a matita in mini-storie di due/tre pagine sui banchi di scuola e un altro farlo professionalmente. I miei primi modelli – parlando di disegno realistico – li ho scoperti proprio nella biblioteca della scuola. Breccia, Muñoz, Bernet, Micheluzzi, Battaglia, Toppi, e una miriade d’altri che prima neppure conoscevo. Ho cercato di imparare qualcosa dalla lezione dei maestri, come chiunque si avvicini a questo lavoro. Con una fatica boia. Ma non c’è marcia senza sudore, no? Sono passi che ho fatto lentamente, con tanto lavoro, tantissime gomme e un numero imprecisato di imprecazioni. Ogni piccola conquista è stata una ricompensa, ma ha lasciato il posto a una sempre più chiara lunghezza della strada ancora da fare… può essere una frustrazione o una sfida, dipende da come ti poni. Per l’ultima parte della domanda, ho iniziato con dei fumettini realistici di satira politica, ma ci ho lavorato davvero poco, poi sono passato in Disney per diversi anni e da lì in Bonelli per Dylan Dog. Per rimanere nell’ambito del fumetto da edicola, da qualche anno collaboro anche con Star Comics. In mezzo a tutto ciò, un bel po’ di altra roba.
Atteso che vi sono dei fondamenti imprescindibili tanto per il disegno realistico quanto per quello umoristico – e consentici di strabuzzare ancora un attimo gli occhi di fronte all’uso di tale doppio registro sul Color Fest Humor -, come ti poni di fronte all’uno e all’altro?
Avete usato una parola giusta, registro. Io le vedo proprio come due velocità diverse, che impongono al disegnatore approcci del tutto differenti. Ma l’impegno e la fatica sono gli stessi, almeno per me. Come quando inizi a parlare una lingua – che comunque conosci – dopo che per tanto tempo ne hai usata un’altra: c’è bisogno di una sorta di assestamento mentale. Per lo specifico, oltre alla cosa più evidente all’occhio, e cioè la mera differenza estetica tra le due espressioni, c’è una diversa impostazione di regia, di luci, una narrazione più o meno sincopata. Poi ci sono naturalmente gli stilemi, le sintesi che appartengono all’uno o all’altro approccio.
Più in generale, immaginando Fabio Celoni di fronte al foglio bianco, quali sono le tappe di realizzazione di una tavola, dalla presa visione della sceneggiatura alle ultime rifiniture?
Di solito mi leggo tutta la sceneggiatura, dalla prima all’ultima pagina (non sempre capita di avere tutta la storia finita), per capire ambientazioni, atmosfere, il taglio che mi piacerebbe dare alla narrazione. Poi proseguo, com’è ovvio, tavola per tavola, di solito dalla prima all’ultima (sembra scontato ma non sempre lo è). Di ogni tavola faccio un storyboardaccio che io stesso non capisco più dopo qualche ora, tanto è abbozzato, dunque devo sbrigarmi a metterlo “in bella”. Per fare questo schizzaccio va bene qualunque foglio, uso la carta che ho sottomano, di solito è un A4 già usato, il formato è piccolo, direi approssimativamente un 10×15, tanto mi serve solo per avere una prima idea di regia e disposizioni varie dei pesi. Da questo lavoro direttamente sul foglio definitivo, di solito un cartoncino Schoeller 25×35 (questa volta intonso). Riprendo l’abbozzo appena fatto, modificandolo spesso pesantemente. Poi vado a “sgrossare” vignetta per vignetta. Sono piuttosto certosino nel fare le matite, un po’ perché mi piace e un po’ perché mi consente di calibrare meglio atmosfere e neri successivi dati a china. Odio i tavoli luminosi, non uso un altro foglio per fare la matita “definitiva” dallo schizzo ma ripulisco e ridisegno direttamente sullo stesso. E se devo riprendere qualcosa (a volte capita di voltare il foglio e notare degli errori nella costruzione) attacco il foglio a una finestra all’incontrario. Lo so, non è molto professionale ma intanto faccio anche un po’ di ginnastica alle braccia. Inchiostro direttamente sul foglio dove ho fatto la matita, prevalentemente con pennello e pennino.
E in particolare, considerando le difficoltà ad appropriarsi di un personaggio altrui, come hai trovato il “tuo” Dylan?
Prima di esserne realizzatore ne ero appassionato lettore, si può dire da sempre. Poi è capitato questo improvviso incontro, di cui artefice è stato Mauro Marcheselli. È stato un grande onore per me e mi sono sentito investito di una grossa responsabilità, non volendo “tradire” tra l’altro un personaggio a cui ero tanto legato. E poi dopo tanti anni di umoristico i timori di non essere adeguato a questo nuovo ruolo erano parecchi. Per trovare il “mio” Dylan, posto che com’è ovvio nel corso degli anni questo si è modificato “da sé” in nuove direzioni, ho iniziato a guardare i disegnatori che maggiormente si avvicinavano al Dylan che sentivo più nelle mie corde. Guardai un po’ tutti, naturalmente, ma il Dylan che volevo raggiungere l’ho cercato soprattutto tra le sfumature di quelli di Venturi, di Casertano, di Ambrosini. Probabilmente mi sto dimenticando di qualcuno. Ah, e tra l’unico di Micheluzzi, secondo me bellissimo.
Non è raro, ormai da tempo, trovarti dall'”altra parte della barricata”, quella della sceneggiatura, magari continuando al tempo stesso la militanza sul campo dei disegni. Che tipo di sceneggiatore è Fabio Celoni?
Uno sceneggiatore che cerca di imparare passo dopo passo, nello stesso modo che avviene per il disegno, perché i galloni bisogna conquistarseli sul campo. Mi ritengo fortunato ad aver avuto questa possibilità, spero di poter ricambiare facendo un buon lavoro. Scrivere e disegnare insieme è la cosa che in fondo desidero di più. Finora, ho avuto la fortuna di scrivere solo cose in cui credevo, perciò l’ho fatto con passione e coinvolgimento. Quando sceneggio per me stesso è tutto più facile, perché scrivo quello che ho già in mente come immagine e che so perfettamente come svilupperò. Quando sceneggio per altri sono parecchio puntiglioso, un po’ per natura e un po’ per timore di non essere compreso appieno nella descrizione. L’essere puntiglioso significa anche che riguardo e riscrivo cento volte i testi, limandoli in continuazione fino all’ultimo istante disponibile prima di andare in stampa, proprio come faccio coi disegni. Anche quando scrivo per altri penso sempre per immagini, e cerco di scrivere qualcosa che mi piacerebbe disegnare. So che un disegnatore che si annoia non affronta il lavoro allo stesso modo di uno che si diverte. Allo stesso tempo cerco di rendergli la vita meno difficile possibile, perché so che a volte alcune richieste in sceneggiatura scatenano in chi disegna implacabili impulsi omicidi.
Nello specifico, ci piacerebbe conoscere qualcosa dell’iter realizzativo che ha condotto alla pubblicazione della bella e densa Il vecchio che legge, oltreché, naturalmente, avere qualche ragguaglio sullo stato dell’arte circa la tua seconda prova da solista. Di cui siamo ancora in attesa!
La storia dietro la storia è lunga. Il vecchio che legge è nata in modo poco professionale, non mi sono seduto al tavolo a pensarci (come si dovrebbe fare), l’idea è arrivata un po’ da sé. Capita, suppongo. L’inizio se non ricordo male è nato osservando delle panchine vuote (nella periferia di Sesto San Giovanni…) e domandandomi chi fosse stata l’ultima persona che vi si era seduta, cos’aveva fatto, cosa aveva pensato e dove si fosse mossa dopo. Era ancora viva? Ma tante cose si sono intersecate. È naturalmente una storia d’amore. Delle gabbie mentali e spirituali che a volte questo sentimento ci induce a creare per proteggerci. Della paura di perderlo. E dunque è anche una storia sulla libertà. E sulla morte. Anzi, sulle morti, specialmente quelle che poi ti ritrovano ancora in piedi. L’età non conta nulla. Ozra vive nella sua gabbia e che sia vivo o morto non fa molta differenza. Infatti è in una sorta di limbo creato da se stesso, dai desideri della sua anima, dal suo dolore. La storia è nata prima come sensazione, a cui dover dare un corpo. Poi hanno fatto la loro comparsa le prime immagini, molto nitide. I personaggi. Ho disegnato Ozra in una spiaggia del litorale di Sabaudia, era una giornata bellissima e io disegnavo un vecchio rugoso. Uno psicanalista avrebbe avuto di che meditare. Intanto la storia nasceva, in quel periodo stavo disegnando un’altra storia di Dylan e vivevo a Roma, nei ritagli di tempo andavo a scrivere sui colli in bici, mi rilassavo e ci stavo ore. I “ricordi” di Ozra, le figure con le croci uncinate, mi sono venute in mente a un semaforo rosso. Ho bloccato la fila e mi sono preso qualche vaffa perché dovevo disegnarlo subito, per fortuna avevo un fogliaccio lì a fianco. Comunque lì mi sono fermato e ho scritto “seriamente” la storia, perché c’era il rischio che altrimenti fosse sbilanciata e che preponderasse la parte visiva. Ma quando ho iniziato è cresciuta in maniera piuttosto fluida, parole e immagini insieme. L’ho elaborata tutta in forma di layout, inizialmente estremamente abbozzato perché mi serviva solo come scansione e ritmo, poi rielaborato e reso comprensibile per mostrarlo in redazione.
Altre curiosità?
– Il nome di Ozra è ovviamente una citazione dell’Ezra brecciano/oesterheldiano fusa con l’Oz di Baum, che compare anche nell’estensione del suo nome (Ozrabaum appunto). Kircher è l’Athanasius storico, in quanto questo fu, tra l’altro, “esploratore di luci e ombre”.
– Il nome della locanda sulla spiaggia in cui entra Dylan (“to Peter Coffin”) è quello del proprietario della “locanda del baleniere” in Moby Dick, uno dei libri che legge Ozra.
– Quando Dylan entra nella stanza vuota di Ozra vede dei libri sul suo letto. La sagoma composta dai libri è molto vagamente quella di un uomo. Di Ozra, appunto, che i libri hanno per così dire “sostituito”.
– Nella sceneggiatura originale, i tre vecchietti si rivolgevano a Ozra col suo soprannome: “Ore”, dicendo a Dylan che lo chiamavano così “per tutte quelle che passava sui libri”. Erano poi proprio le ore (dell’orologio in strada, vicino alla panchina) ad offrire a Dylan il primo avvicinamento al mondo del vecchio. Questo era anche uno dei motivi per cui Dylan passava sopra l’orologio nella piazza (quella popolata dai “ricordi” nazisti) e proprio sopra l’orologio la bambina gli offriva il suo aiuto. Sempre la bambina disegnava lo stesso quadrante delle ore sulla spiaggia, e la sua battuta aveva così un senso diverso. Proprio perché Dylan conosceva il suo soprannome, coglieva il collegamento velato delle parole della piccola.
La seconda storia, quella in preparazione, si svolge invece a Londra, è un’avventura nera e dal retrogusto grottesco, ambientata nel mondo del circo. Mi fermo qui. Questa volta ho consegnato in redazione la sceneggiatura scritta in maniera canonica, tenendo per me i layout (quelli di “prima tornata”, molto abbozzati, che mi servono solo per valutare la scansione della tavola). Come per l’altra volta la storia è nata da flash e immagini molto forti intorno ai quali poi è sorta la struttura narrativa vera e propria.
Tanto per essere impiccioni fino all’ultimo, indiscrezioni per il futuro?
Quando finirò la storia di Dampyr che sto disegnando, riprenderò in mano i disegni della storia di Dylan di cui vi ho appena parlato e che avevo dovuto purtroppo interrompere per questioni di scaletta dampyriana (cioè di continuity). Poi ho una storia di Paola Barbato che mi aspetta subito dopo, sempre per Dylan. E altri soggetti miei – ancora per Dylan – che vorrei presentare in redazione, vediamo un po’.
In bocca al lupo e a presto!
Crepi il lupo, ciao e a presto!
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