Uscita pochi mesi prima di un'altra storia firmata dagli stessi autori, "Il masticatore di sudari" (sul sesto Dylandogone), l'ultima apparizione di Manfredi sulla serie regolare è come quella una delle sue prove migliori, e ne condivide sia l'incipit d'ambientazione storica sia, in un certo senso, l'epilogo: i colpevoli si rivelano essere coloro che più di tutti vogliono credere alla leggenda. Vero che in questo caso la leggenda è effettivamente (e solo) tale, e quindi ci si potrebbe anche lamentare dell'assenza di elementi strettamente soprannaturali: tuttavia, da una prospettiva horror, direi che una specie di setta di fanatici che vuole vendicarsi del mondo diffondendo un'epidemia mortale è
già un'idea abbastanza spaventosa (di questi tempi, poi...).
Anche qui, poi, come del resto nella doppia "Aracne"/"La profezia del Ragno", a dare una grossa mano allo sceneggiatore è Corrado Roi: forse la sua insistenza sui primi piani è a tratti sospetta (problemi di tempo?
), ma nel complesso la sua è una prova superba, con alcune tavole da antologia -l'incipit, la lunga sequenza dell'incubo di Tyler, gli incubi di Dylan... Certo, si potrebbe anche pensare che tutta questa sfilata di incubi sia un sintomo della difficoltà di Manfredi nel riempire le canoniche novantaquattro pagine (obiezione che, d'altra parte, si potrebbe muovere anche a diverse storie di Chiaverotti), ma visti i risultati non me la sento di criticarlo per questo. Per altre cose, invece, sì: anche stavolta il personaggio femminile è poco significativo (la lamentosa Cecilia), e anche stavolta le ultime due pagine, con tanto di moralina finale, confermano la difficoltà dell'autore nel chiudere le proprie storie.
Piccolo dubbio: uno dei dettagli da cui Dylan intuisce la colpevolezza di Cecilia è il fatto che la sua telefonata al ristorante non fosse diretta al laboratorio, bensì a Beavin -cosa che a sua volta ha intuito dall'assenza di giornalisti che lo aspettavano (vedi pagina 82). Ma come faceva a sapere che non c'erano giornalisti ad attenderlo, visto che -dopo la prima visita, precedente alla scena del ristorante- al laboratorio non c'è più tornato? Cecilia si era limitata a dirgli (vedi pagina 49) che la polizia lo pregava di tenersi lontano dal laboratorio, per evitare di alimentare l'interesse della stampa -cosa che suona del tutto plausibile, dato che in effetti la stampa era presente in forze sul luogo, e che in effetti qualcuno lo aveva già riconosciuto (da cui la comparsa della sua foto sul giornale).
Nota storica: molto interessante, soprattutto alla luce degli sviluppi editoriali degli ultimi due anni, il riassunto di una vecchia discussione che, a quanto ho capito, ha coinvolto anche Paola Barbato, sulla possibilità di realizzare cicli narrativi di durata superiore all'albo singolo (o al più doppio). In effetti, dopo aver riletto questa sua prima trasferta italiana, ho pensato anch'io che non sarebbe stato male (e non lo sarebbe tuttora, se qualcuno avesse voglia di farlo) provare a portare Dylan Dog qui da noi e tenercelo per un po', diciamo un anno o due -del resto, lo fece anche Martin Mystére, e anche lui tra l'altro poco dopo il decennale...