Come ho già detto, l'idea della storia volutamente banale non mi convince affatto, ma l'accetto perché detesto quando si contesta la versione ufficiale di un autore o artista.
Di diverso avviso è però mio fratello, che si è invece detto fortemente contrario, parlando della "
solita furbata di Recchioni", e tirando in ballo la scena del Secondo Tragico Fantozzi in cui i cacciatori si adagiano per comodità sull'idea che il più infame tra di loro sia una iena non metaforica. Ma lui non fa tanto testo, perché è un conclamato hater del Rrobe, e in questi casi tende a perdere la lucidità.
Gli ho detto di scrivere qualcosa in proposito, pregustando una salva di feroce sarcasmo. Sembrava ben disposto, invece se n'è uscito con una delle sue solite complesse, discutibili elucubrazioni.
Ormai l'ha scritta, quindi ve la incollo. Io mi dissocio per i motivi di cui sopra.
Cita:
Partiamo da un presupposto. “Graphic horror novel” è un metafumetto. E fin qua tutti d'accordo.
Ora, la teoria emersa è che “è un fumetto con una storia banale e debole perché il personaggio ha perso le proprie capacità”. Ok, ragioniamoci.
Noi in realtà assistiamo soltanto a una storia: un disegnatore si trova in un bagno e disegna una storia dove racconta poi il fumetto che leggiamo.
La questione è la seguente: il personaggio ci sta raccontando la verità, oppure no.
Se quello che leggiamo è quello che è successo realmente, non sussiste il caso: l'autore può essere capace o meno, ma sta narrando dei fatti. La verità non può essere banale o mediocre, perché è solo la verità. Può esser raccontata con poco ritmo, male, approssimativamente, ma rimane quello che è, cioè la verità.
Oppure, c'è un “oppure”, non sta raccontando la verità, e allora il giochino – in cui il Rrobe si trova bene, perché salva baracca e burattini – può reggere: il disegnatore ha perso il talento e blabla.
Ma non è quello il punto: il punto è che non sta “raccontando (o meno) la verità”. Quindi di che cosa abbiamo letto? Qual è il vero senso della storia?
“Graphic horror novel” funziona bene perché è un metafumetto (ancora? L'hai già detto!). Un fumetto che racconta di un fumetto. E il senso di tutto poggia proprio sulla natura stessa del racconto, sul patto che l'autore fa con il lettore. Fermo restando che la mise en abyme funziona perché tripla (noi leggiamo di un disegnatore che racconta, disegnando, di omicidi che seguono le storie di altri fumetti) e le varie connessioni tra quello che il disegnatore (da ora chiamato Foster Wallace perché non mi ricordo come si chiama) disegna (come l'ultima tavola di “In principio era il nero”, tav 33, che riprende quello che lui trova in bagno, o l'assenza della tavola da lui disegnata a pagina 91), il senso vero, secondo me, è sulla fiducia nel lettore che ha nei confronti dell'autore.
Noi lettori possiamo fidarci di quello che dice Foster Wallace, e allora la storia può essere mediocre o meno. Ma l'autore non è lui, e nemmeno il demone che lo possiede: l'autore è Ratigher, e solo lui. Ecco allora il patto che il lettore stipula con l'autore, nel momento in cui compra e legge un fumetto (o un romanzo, o una graphic novel). Ratigher ci sta dicendo, nel momento in cui noi leggiamo, che quello che succede nel fumetto è “vero”, così come quello che racconta il protagonista è “vero”, solo per poi ricordarci che la storia ha valore e senso giusto perché siamo noi a darglielo, perché noi tiriamo le somme.
L'attribuzione di fiducia del lettore slitta da Ratigher a Foster Wallace, facendoci domandare se lui è un autore mediocre o meno, e se quello che dice è vero o meno. Lasciando così a noi di “riannodare i fili del racconto senza perdersi nel vuoto”, e facendoci scordare che la storia esiste solo e soltanto nel momento in cui noi rendiamo “reali” i personaggi.
La storia del disegnatore nel bagno ha senso a prescindere da quello che racconta, e viceversa: le due sono assolutamente indipendenti e legate esclusivamente dalla natura a cornice della storia. Questo, rientrando nella natura stessa del fumetto che stiamo leggendo, è una riflessione sulle possibilità del narrare del fumetto, che pretende di raccontare una “realtà” che ha senso per noi perché accettiamo di entrare nel mondo esclusivo del fumetto, in questo caso Dylan Dog (cioè, in altre parole, questa storia ha senso solo perché noi la leggiamo su un DD e non su, per dire, un Topolino, no?).
Ratigher dunque ci dice che: qualsiasi sia il senso del racconto, siamo noi a crearlo, perché il racconto esiste solo se il lettore “accetta” di entrare dentro il mondo costruito tra gli spazi bianchi, che è l'unico posto dove i personaggi esistono. Nell'ultima tavola, il disegnatore, che è convinto di essere “reale”, esce fuori dalla struttura stessa del racconto, scoprendo lui e ricordandoci a noi che si tratta solo di un personaggio, e che nei fumetti l'autore è condannato a non apparire mai, così come i personaggi son condannati a non diventare mai reali.