Dear Boy ha scritto:
A me Dylan piaceva perché sviscerava il nostro disagio esistenziale e non quello di una specifica categoria professionale.
Massì, su questo sono fondamentalmente d'accordo. E lo dico da appartenente —più o meno— alla suddetta categoria.
Ma questo è un discorso ampio. Quando una forma espressiva raggiunge un certo grado di mainstream (è successo molto prima col cinema e con molto ritardo all'arte "sorella" fumetto), è naturale che generazionalmente arrivi il momento dei Nerd; e qui uso il temine in senso descrittivo, non necessariamente dispregiativo. C'è una grandissima differenza tra il cinema di Welles e Wilder da una parte, e quello che da Coppola arriva a Tarantino dall'altra. Le prime generazioni di cineasti provenivano da esperienze e da mondi culturali diversi, e vedevano il cinema come una nuova forma espressiva in cui riversare l'eterogeneità del proprio bagaglio culturale. Era un mezzo per parlare del mondo, non (solo) delle proprie magnifiche ossessioni. I secondi sono autori nati e cresciuti all'interno di una cultura cinematografica: per loro il cinema era un fine, più che un mezzo, e rappresentava la quasi totalità dell'orizzonte. Naturale che ai primi il sollazzo metacinematografico importasse limitatamente: potevano incorrerci, giocarci, ma difficilmente ne facevano un esercizio masturbatorio: il loro orizzonte comprendeva molto altro. Sui secondi (e sulla generazione di critica cinematografica loro coetanea), invece, il gioco intorno al linguaggio e alla cultura cinematografica esercita il potere seduttivo del più prelibato dei nettari. I migliori sanno guardare anche oltre, i peggiori ci si impastoiano facilmente.
Recentemente il fumetto, mercé il cavallo di Troia
del [errata corrige per l'editoriale: è maschile, ormai lo sanno
persino i giornalisti] Graphic Novel, sembra essersi guadagnato un posto al tavolo degli adulti (nel nostro paese conserva ancora qualche residuo sospetto di puerilità, perché siamo davvero gnucchi). È il turno, finalmente, della Generazione Nerd. Direi che pochi potrebbero esemplificare meglio del binomio Sclavi/Recchioni questo scarto: possiamo dire di godere di un osservatorio privilegiato.
Sclavi proveniva soprattutto dal mondo editoriale: per lui (e per la sua generazione) il fumetto era
uno dei media nell'aria: amato, importante, ma non certo esclusivo. Per me stesso, bimbo lettore, il primo Sclavi non è quello di Dylan Dog, ma quello della
PaleXtra dei Lettori sul Corriere dei Piccoli dei primissimi anni Ottanta. Era, in sostanza, una divertentissima lenzuolata di posta dei lettori, gestita quasi con piglio da DJ. Il tono era identico a quello dei redazionali di Dyd, e Groucho era già udibile in sottotraccia (e no, non aveva sonorità infere: quello è un problema degli sceneggiatori che non sanno maneggiarlo). La sua voce di scrittore di fumetti all'alba dell'86 era ancora in fase di rodaggio. Con Dylan Dog si può dire che l'abbia trovata (eccome).
Per Sclavi i (tantissimi) riferimenti culturali interni ed esterni al fumetto erano qualcosa da lasciar trapelare con discrezione, in un gioco di citazioni tra il pudico e il sornione, o anche da dissimulare con una buona dose di paraculaggine, quando si trattava di (eccellenti) scopiazzature.
Per Recchioni rappresentano (o almeno così mi pare) un bagaglio da affastellare bulimicamente proprio per giustificare e innalzare il valore di un media che si sente ancora, di fondo, come "minore" (confrontare, prego, gli spazi redazionali del primo con quelli del secondo). E in questo, in sé, non c'è niente di male, se il pubblico di riferimento è quello dei nuovi (giovani) lettori: possiamo vedere i nuovi editoriali come utili consigli d'ascolto e di lettura. Per noi vecchiacci, però, è difficile non sentire un'ansia di autonobilitazione
non petita, se non addirittura quel vago retrogusto di arrampicata sugli specchi in sede d'esame alla Enrico Fiabeschi (bisogna riconoscere che però Fiabeschi era messo molto peggio. ah, a proposito, la battuta fumettista/rockstar viene da Pazienza).
Ma, volgendoci verso l'opera vera e propria, concordo con chi su questo forum (chi era?) scriveva che leggere
Mater Dolorosa gli dava la sensazione di avere qualcuno appollaiato sulla spalla che gli diceva continuamente: "Và che figata ci ho buttato dentro! Guarda qua! Cogli? E questa l'hai riconosciuta? Guarda cosa dice adesso!"
Un'esperienza così, insomma:
...Che tirata per un centinaio di pagine, stufa.
Diciamo che quando leggo i fumetti di Recchioni mi sembra di essere seduto al cinema in prima fila, accanto agli altoparlanti, con le spalle punzonate dagli stivaletti country di un tipo spaparanzato nel sedile dietro di me.
Ratigher, invece. Riguardo a Ratigher, il discorso, secondo me, è un po' diverso: lo conosco, come autore, da qualche anno (e il merito è proprio del blog di Recchioni), e trovo che sia un bravo fumettista, capace di produrre dei contenuti interessanti. Il suo stile di scrittura (e di disegno) è
volutamente urtante. Gioca col citazionismo e con quella
maniera che rientra nell'inflazionatissimo e vaghissimo concetto di [post-post-post-post-post-∞]postmoderno, in cui sembra di non incontrare mai un contenuto che non sia messo in discussione da qualche didascalismo voluto o da qualche sfondamento di parete, perché tutto è già stato scritto, e nessuna parola suona più
vera. Ma non mi pare che lo faccia in modo gratuito. Si diverte a fare il punzecchiatore (vedi il suo Bimbo Fango, piccolo indagatore di cattive coscienze munito di tridente) di costumi e di abiti —e alibi— ideologici, e secondo me lo fa piuttosto bene. In particolare alcuni suoi dialoghi mi ricordano (fatte le debite proporzioni) quelli dei personaggi romanzeschi di Altan (Colombo, Franz). Il suo registro è sarcastico/caricaturale, e non è affatto detto che voglia, o sappia, uscirne.
Né, soprattutto, è detto che possa funzionare su Dyd. Alla prova dei fatti, per il momento direi di no. Pur partendo con buone aspettative, mi rendo conto che entrambe le sue storie mancano del godimento immediato che un buon racconto deve saper dare, al di là di tutta l'esegesi che si possa fare a posteriori. Esegesi che, per un fumetto popolare, non è comunque dovuta, senza voler sminuire il genere.
Aggiungo che gran parte della fatica che incontro nel leggerlo deriva dal contrasto con i partner disegnatori (in particolare M&G e Baggi: Bacilieri è talmente bravo da sapersi mettere perfettamente al servizio di qualunque trama). Mi piacerebbe vederlo ai testi
e disegni, ma questo potrebbe avvenire solamente al di fuori della serie regolare.