Volevo dire qualcosa di intelligente ma non mi veniva nulla. Così cito un bel saggio che gira in rete sul nostro amico Dylan, di tale Matteo Verda.
"(…) il cronotopo di Dylan, lo spaziotempo in cui agisce Dylan è sì la contemporaneità, ma una contemporaneità critica, non ingenua, che per convenzione possiamo definire «postmoderna». In coerenza a ciò la narrazione di Dylan Dog è infarcita all’inverosimile, appunto, di citazioni e rimandi, dalla letteratura ai film, dagli orrori di guerra a quelli quotidiani della burocrazia, dai film alle canzoni… In questo senso i ‘fumettari’ che costituiscono i veri antecedenti colti di Dylan Dog, per aprire almeno una feritoia sulla «tradizione del visuale», sono artisti che si collocano su una linea che va da Hieronymus Bosch, e dai suoi inferni grottescamente reali e irreali, a Rene Magritte, a Edvard Munch, a Egon Schiele. A conferma di questo, e per fare solo gli esempi più espliciti, ricordiamo che Bosch «grottesco e carnevalesco» è citato esplicitamente negli album di Dylan Dog n° 46, 81, Magritte nel 41, Munch nel 157, ecc., mentre il tratto grafico di Schiele è una presenza sotterranea e continua. Torneremo più avanti su Dylan Dog «grottesco e carnevalesco» (la locuzione è di Bachtin) e sul ‘citazionismo critico’ tipico della sua saga, anticipiamo però che quest’ultima caratteristica, convenzionalmente definita come ‘postmoderna’, è la probabile origine del grande amore di Umberto Eco per Dylan Dog. Detto tutto ciò, e prima di passare ad analizzare le dinamiche narrative del ‘fumetto’, restano da esplicitare due ulteriori motivi di fascinazione e riconoscibilità. In primo luogo Dylan Dog è, come ovvio, giovane e bello: «gli eroi son tutti giovani e belli» canta Guccini ed infatti il nostro eroe, per la felicità delle sue numerosissime lettrici (almeno un terzo dei suoi lettori complessivi: il dato è verificabile empiricamente anche andando in una qualunque stazione ferroviaria), ricorda, in tutto e per tutto e come già accennato, il suo modello ‘vivente’ Rupert Everett, e dunque è alto, snello, col ciuffo spettinato, il viso allungato, lo sguardo triste e fascinoso: insomma il personaggio Dylan cita e traduce graficamente, in tutto e per tutto, lo stereotipo romantico del ‘bel tenebroso’. Non solo ma, se è vero che Dylan Dog è un personaggio (un uomo?) ‘in crisi’, è vero anche che il nostro eroe è sempre sostanzialmente e nobilmente coerente con se stesso e con la sua alta Weltanschauung politically correct: persino i suoi vestiti, in quest’età di voltagabbana, non cambiano mai, dalla prima puntata alla duecentesima, ossia: giacca nera esistenzialista, camicia rossa garibaldino-partigiana, jeans proletari e di sinistra, al massimo una sciarpa d’inverno (a una delle tante rampogne di Bloch - «mi fai una rabbia sai… te lo vuoi comprare o no un capotto» - risponde, ironicamente, che gli rovina il look). Insomma, in tempi di pentiti, rinnegati e convertiti, e di ideologie debolissime, Dylan è un personaggio ideologicamente non solo positivo, ma decisamente positivo, questo però senza essere arrogante ed anzi con un filo, ironico e persistente, d’inquietudine e d’incertezza. Per dare concretezza a tutto questo ragionamento, e provvisoriamente concluderlo, possiamo ancora ricordare il dialogo tra Dylan e un marito che, morto ma redivivo (morte e vita, si sa, in Dylan Dog sono confini labili), si lamenta del fatto che Dylan sia stato a letto con sua moglie («te la sei portata a letto e adesso mi dirai che l’hai fatto per arrivare a capire… per entrare in comunione con il suo spirito!») risponde: «Si e no… L’ho fatto anche per questo e non l’ho fatto solo per questo, ma perché ne avevo voglia, e forse perché sono un figlio di buona donna come un po’ tutti in questo mondo» (…)"
"(...) il personaggio di Dylan Dog deriva dai «veri» supereroi del romanzo d’avventure e d’appendice ma ne costituisce un nuovo tipo che, ironicamente ma non tanto, e qui si comprende l’attenzione che gli porta Eco, potremmo definire come «supereroe debole o tarlato» (la definizione sarebbe piaciuta al poeta piemontese Guido Gozzano che infatti ringraziava Dio d’averlo fatto nascere guidogozzano piuttosto che d’annunziano). A conferma di ciò due battute da un’intervista a Sclavi: «‘Lei ha riempito il suo personaggio di fobie. Perché?’ ‘In effetti Dylan Dog soffre di tante cose, ha paura dell'aereo, soffre di vertigini, a volte è depresso…’ ‘Perché lo ha così indebolito?’ ‘Per non farne un vincente, un superuomo alla Tex. Lui è uno che qualche volta perde, oppure se vince, non vince mai completamente. In fondo non sembra neppure un eroe del fumetto. E' anche un ex alcolizzato e per questo fa propaganda contro l'alcol e il fumo’» (Sclavi 1998: per inciso ricordiamo che Dylan Dog è persino vegetariano e che anche questo è un ricordo parodico di Tex il quale, al contrario, è un convinto divoratore di bistecche alte tre dita). Torneremo tra poco sul tema del ‘Supereroe debole’; ora è invece il momento di ricordare sinteticamente che gli studi di Eco sul romanzo d’avventure e d’appendice partono, come ricordato da Eco stesso nell'Introduzione, da un pensiero di Antonio Gramsci (lui sì un eroe e un gigante, oltre che intellettuale, eticomorale) che nei suoi Quaderni dal carcere (fascista) scriveva: «Mi pare che si possa affermare che molta sedicente 'superumanità' niciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zarathustra, ma Il conte di Montecristo di A. Dumas». Sviluppare l'ipotesi gramsciana per Eco significava «andare alla ricerca degli avatars del superuomo di massa» da Sue a Salgari ed arrivare ai tempi nostri con James Bond, un superuomo raccontato in termini di spy thriller, ma senza dimenticare che «le vie del superuomo sono infinite». Per comprendere l'ascesa e trionfo del superuomo di massa dal romanzo d’avventure e d'appendice ottocentesco alle sue successive incarnazioni novecentesche fino all’esito di Dylan Dog (un Mattia Pascal e un Zeno Cosini del ‘fumetto’) e per comprendere il ben diverso esito artistico di Dylan Dog rispetto, ad esempio a James Bond, è utile riportare estesamente la pagina conclusiva dello studio di Eco dedicato alle «Strutture narrative di Fleming» autore di James Bond, non solo come esempio di semiotica della narratività, ma anche per dimostrare la ricca complessità dell'analisi stilistico-strutturale-ideologica di Eco: «Poiché in questa sede non siamo avviati a condurre una interpretazione psicologica dell'uomo Fleming, ma una analisi della struttura dei suoi testi, la contaminatio tra residuo letterario e cronaca brutale, tra ottocento e fantascienza, tra eccitazione avventurosa e ipnosi cosale, ci appaiono come gli elementi instabili di una costruzione a tratti affascinante; che spesso vive proprio in grazia di questo bricolage ipocrita, e che talora maschera questa sua natura di ready made per offrirsi come invenzione letteraria. Nella misura in cui consente una lettura complice... l'opera di Fleming rappresenta una riuscita macchina evasiva, effetto di alto artigianato narrativo; nella misura in cui fa provare a taluni il brivido dell'emozione poetica privilegiata, è un'ennesima manifestazione di Kitsch; nella misura in cui scatena... meccanismi psicologici elementari, da cui sia assente il distacco ironico, è solo una più sottile ma non meno mistificante operazione di industria dell'evasione. Ancora una volta un messaggio non si conclude veramente se non in una ricezione concreta e ‘situazionata’ che lo qualifichi. Quando un atto di comunicazione scatena un fatto di co tume, le verifiche definitive andranno fatte non nell'ambito del libro, ma della società che lo legge» (Eco 1978, p. 184). Fermo tutto questo, la spiegazione del ben diverso esito artistico di Dylan Dog («in fondo - dice Eco - passerei giorni e giorni a leggere la Bibbia, Omero e Dylan Dog: non naturalmente James Bond») è che Sclavi, la cultura di Sclavi e la cultura del suo romanzo disegnato, cultura di cui Eco è ben cosciente, fa riferimento non solo agli eroi e ai supereroi del romanzo d’avventure e d’appendice ma alla crisi del personaggio romanzesco da Dostoevskij a Pirandello, da Svevo a Joyce (ed in questo contesto, se non in questa prospettiva, che Dylan Dog va letto). Ecco perché Sclavi non ha voluto fare di Dylan Dog un eroe alla Tex o alla James Bond: ora capiamo la battuta parodica con la quale si presenta: “Sono Dog, Dylan Dog”: che è certo un calco di “sono Bond, James Bond” ma un calco in minore solo apparente: dog sta per cane e dunque il nome Dylan Dog potrebbe voler dire ‘seguace’ del romanziere e poeta Dylan Thomas o del cantautore Bob Dylan (al secolo Roberto Zimmerman), ma meglio essere il cane di un poeta o di un cantautore, o un cane di scrittore, che il sosia di Bond, James Bond e di tutti i suoi supereroici e tardodannunziani fratelli. Questa la scommessa, vinta, di Scalvi. Detto ciò Dylan Dog andrebbe nondimeno ancora inserito tanto nella storia ‘specifica’ del noir e nella storia del genere ultraletterario ‘fumetto’, se non internazionale almeno italiana e in particolare nella storia del ‘fumetto’ della Casa editrice Bonelli («le vie del superuomo sono infinite»). Naturalmente tutto questo non è qui possibile e oltre al rimando ad alcuni volumi di storia del ‘fumetto’, possiamo solo sintetizzare questo percorso in alcuni nomi di ‘fumetti’ italiani precedenti Dylan Dog e che dunque in qualche modo ne costituiscono delle premesse: Tex Willer, Diabolik, Ken Parker, Martin Mistere (sono tutti ‘fumetti’ della Casa editrice Bonelli salvo Diabolik delle sorelle Giussani). E in una affermazione di Gramsci: «ogni classe sociale si costituisce e si forma i propri intellettuali»; ora a prescindere dal valore artistico di Dylan Dog - cosa di cui credo di avere dimostrato la consistenza ma di cui non mi nascondo i limiti (tra l’altro alcuni album sono ottimi, altri meno, altri pessimi) - è innegabile che questo ‘fumetto’ è una delle grandi (se non si vuole in termini artistici per certo in termini numerici) risposte intellettuali e culturali del presente al presente: negarlo vuol dire rinunciare al confronto con la contemporaneità, che non vuol dire esserne sciocchi apologeti, ma, almeno per quel che ci riguarda, critici interpreti (su tutto questo ancora non si può che rimandare al fondativo Apocalittici e integrati di Umberto Eco del 1964 e al suo falso dilemma: la risposta, naturalmente, è né apocalittci né integrati)."
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