Per me puoi anche tuffarti in quest’albo, almeno per la curiosità…ma di certo non per la copertina che ci propone Dylan in versione ludica di cavia da labirintorio-trappola
…. alla ricerca di qualche pasticca-cachet più che di una via d’(u)Escher-ita dai propri fantasmini lavorativi. Tra l’altro si continua anche nella meccanica convinzione grafica recchioniana che basti un
camicia rossa per identificare Dylan, e Garibaldi ci farà sapere. Nel frattempo “obbediamo”… all’imposizione del logo monocromatico, che mi sta proprio sul Caiazzo, a livello di battaglie alla garibaldina
.
Comunque, copertina a parte, si può dire qualcosa di quest’albo…
SPOILER °°°°°°°°° SPOILER
SPOILER °°°°°°°°° SPOILER
SPOILER °°°°°°°°° SPOILER Non mi ha impressionato per nulla. Né in positivo né in negativo
.
Probabilmente è il miglior Bilotta sulla regular – non che bisognasse far gli straordinari sottopagati denotte per superarsi, eh… –
ma quest’anno ho preferito di gran lunga cose come
Il Lago nero o
Il mostruoso banchetto, che non abusano dell’ ”impegno” per disimpegnarsi dal contesto.
Ho votato 7 soltanto perché i disegni sono di ottima caratura, i dialoghi impostati bene, e
Bilotta almeno non soffre della medesima bacchettonaggine pedantesca nell’imporci l’indottrinamento delle sue cause pseudo-sociali, a differenza dell’ingenuo pa(st)rrocchiano
Gauldoni, o del guru del radicabigottismo
Simeoni .
Ma la storia per il resto non mi ha offerto nulla di particolarmente suggestivo, l’incubo latita a più riprese, il ritmo è ingessato fino all’apatia più densa, ed alla fine ho avuto soltanto la
sensazione di una serie di “quadri” a tesi con Dylan calato coattamente nel ruolo di un altro personaggio, semplicemente perché è questo il nome della testata, ed un albo del genere ne
Le Storie avrebbe avuto impatto zero.
Come sempre, in tempi recenti, è tremendamente difficile scrivere una storia horror in cui Dylan intermedia con altri protagonisti, interagendo tramite indagine, mentre più di comodo la soluzione di metter lui stesso alle strette con un incubo-paranoja qualsiasi, anche senza alcun espediente narrativo come qui, dove ci vediamo catapultati nella dimensione della
Day Dream di punto in bianco – e questo può essere anche un bene, nel
daydreaming nuovi incubi alla luce del sole – ma senza trovare poi appigli narrativi durante gli sviluppi della storia, a parte l’accenno di Griffiths ad un’indagine spersonalizzante che sarà il pretesto per innescare questa
full immersion de profundiis nel mondo dell’impiegatismo post-industriale
.
Struttura ripetitiva con sbalzi al limite dell’immotivato, se non del puramente figurativo. Non si si avventura più di tanto nell’onirismo vero e proprio della cinica realtà – ma
Medda è un altro pianeta, distante molte promozioni di rango da questo scrivanismo d’appendice – né nel lato più grottesco del degenere con cui ci si vuole confrontare – dove perfino l’incubo burocratesco di
Recchioni nel
Modulo A38 aveva fatto meglio. Si avverte una castrazione di fondo nella “scena” per privilegiare il supporto teorico alla scena stessa.
Più che
Kafka poi direi
Camus, perché l'incubo sembra più latente all'estroflessione del singolo che all'introjezione del sistema. I vari temi collegati alla critica social(e)…come
sfruttamento, stato di sorveglianza, alienazione, l’azzeramento di dignità/ personalità, il ritorno a casa – per far cosa? – quale unico obiettivo della giornata, le spiate per farsi belli davanti al capo – strano non si parli di raccomandazioni, poi … - le macchine che sostituiscono l’uomo, etc… possono essere anche interessanti nel loro infliggerci derivazioni estreme di uno stato di abus&soprusi verso l’essere non nobilitato dall’impiego, ma qui alla fine il campionario diventa fine a se stesso nell’illustrativismo per “quadri”, appunto, più simile alle allegorie malriuscite di un
Ratigher digressivo che alla pregnanza soffocante di un
Medda che affronta una trama
.
E come dice il promettente
Nikolaj, l'opporsi implicitamente tra le righe - anche senza successo, in senso colluso fantozziano – per renderci d’empatia vicini a tale vicissitudini, è l’ennesimo sfociare in battagliamenti che ormai strapuzzano di
politically-correct dall’effetto infine rassicurante, dopo 40 anni e passa di solfeggi similerrimi e tensioni risapute
.
A questi solfeggi para-ideologici preferisco, come trasversalità irredenta, chi dipinge le meschinità più che (sub)umane di un pensionato che va consapevolmente a puttane vantandosi di non pagare per presunti favoritismi sentimentali. O l’irriverenza di un auto(lavorato)re non asservito alla causa che trova il coraggio di mandare a quel paese il suo editore-direttore, dicendo che la fase#2 “
è una cagata pazzesca”, rifiutandosi quindi di inserire
contentini aziendali al Ghost 9200 o alla sagoma cartonesca di Carpenter.
92 minuti di applausi e poi qualche “maturato giudizio estetico” sul dibattito dei dettagli della storia...
******Le prime otto pagine sono davvero centrate, e promettevano davvero bene. Dylan inerme che si smerdaccia da solo, l’indennizzo ipotecato sul non-diritto al suicidio, il paradosso del dover pagare per lavorare, ed anche l’espressione (s)bieca dell’avvocato (6.iv) suscitano davvero inquietudine, per quanto sotto scacco. Merito ovviamente anche della sapiente mano nervosa di
De Tommaso, che però pecca un tantino d’incongruenza scenografica quando c’è da capire quale sia l’esterno del megaufficiogalattico (p.15 Vs 59
).
Allarmanti pure il passaggio in auto disdegnato (16) ed il tizio che osserva nel bujo…anche se col parcheggio nun ce semo (17.i), visto che De Tommaso non ricorda come davanti a CR7
non si parcheggi a pettine da 30 anni e passa; sempre che non stiano rifacendo le strisce blu o Dylan non voglia allargare la sua collezione di multe
.
Gli scambi con Groucho, battute comprese,
sono onestamente troppo prolungati (pp.18-21) e dopo un po' vengono a noja tentando di abbozzare
Noûs (νοῦς) : capisco che al Nostro dopo venga un colpo di sonno (19.vi), molto meno perché Groucho imbastisca una colazione da reggimento di fanteria (21.vi)
Lavorare stanca…diceva
Pavese…specie se bisogna evadere tonnellate di pratiche e non si dispone di un rasojo per sbarbarsi dopo tante barbosità
Dylan oltre che passivo sembra anche mediamente rintronato in ogni dove, non pare conoscere chi gli circola intorno nonostante dica di lavorare in quel posto da 15 anni, stupendosi due volte su tre su ciò che si presume debba conoscere a menadito dopo tanti anni di attività (v. tipi rifila-faldoni p. 31.vi, o la mai notata prima cozza arpia, p.34)
.
Calo vistoso di
De Tommaso tra pagina 35 e 36, come di Bilotta nell’arenarsi su scambi abbastanza oziosi in sala mensa che affossano il ritmo già non abbastanza sostenuto né angosciante. Come dire, sentiamo la mancanza degli sberleffi di Calboni in certi casi
:
Si aggrava in seguito la posizione degli scambi con Groucho (44-45),
ancora più divulgativi con il suo snocciolare saggistica socio-economica applicata al contesto. Interessante, per carità, ma ci sono altri modi per non rifilare senza erte didascalate questi elementi “alti” verso la riflessione paraculturale. E l’indottrinamento sulla colpevolizzazione dell’era consumistica e sul ricattevole patibolismo delle rateizzazioni/indebitamenti a vita innatural-logorante... dopo un po’ suona patetico, nonché appesantisce oltremodo nel
refrain-mantra la seconda parte dell’albo.
E’ vero che bisognava dare una funzione al baffuto, tipo coscienza-di-rimando... perché altrimenti non si capisce cosa lo trattenga a CR7 a sbafo del Nostro mentre questo si fa un mazzolino così nella tana fiorita del Ghost. La sua funzione si aggraverà nella discettazione pura più avanti come nel forzoso esempio di pag 90
.
Più interessante l’omertà sul perché Dylan abbia rinunciato alla sua precedente attività (46) e cosa lo spinga tuttora ad aggrapparsi al nuovo lavoro senza un apparente senso, tranne quello della busta paga, spese escluse. Il silenzio di Groucho in quella pagine dice molto più che tonnellate di sue interventismi
politically-engaged nel resto dell’albo
.
Molto scalcagnato il modo di presentare
out of nothing l’esperienza del delirio persecutorio su scala investigativa con l’improvvisa illuminazione del “piano 17 mancante” (p.52) e relative entità mostruose che avvinghiano quelle sedi. Ok… è un episodio-parentesi nell’episodio stesso, e infatti finisce col medesimo logo in coda (59)…
ma non aggiunge nulla è sembra più che altro buttato lì per accontentare chi voleva un contentino di un po’ di orrore sfigurato rispetto a quello reale.
Dopo l’ennesimo sermone teatrato sugli $$$acquisti$$$ compulsivi (p.62-63) – nel caso non fosse chiaro il concetto, e non si volesse $$$comprare$$$ una copia supplementare dell’albo per togliersi il dubbio di possederne una lacunosa in materia – Dylan nel pieno della sua mediocrità non trova di meglio che portare la tipa ad un appuntamento al centro commerciale. Almeno l’egregio ragioniere la Silvani la portava al ristorante giapponese, che faceva ancora figo nei ‘70s, per quanto non convenisse molto ai dogs non vegetariani
:
Altra razione di quadretto aziendale applicato alla dimostrazione delle proprie tesi sul consumismo (pp.69-70), con infine omelia sulla consistenza della monodimensionalità umana, con monodimensionalità espressiva da parte dell’outsider nullafacente figliodipaponzo (79).
Nel mezzo quello che poteva essere uno spunto interessante ma viene lasciato a sbollire da solo, come la
storia delle indagini cominciate per conto di Griffiths per poi essere risucchiato all’interno dell’alienante azienda, perdendo in dna-lanyetà. Non era quello che pensavo inizialmente, perché intravedevo dalle prima pagine – complice la storia dei 15 anni in azienda – più una trama sulla falsariga di
L’assassino è tra noi, con uno schizoide/derelitto che prova a “sentirsi” Dylan per cambiare un attimo le sue prospettive intrappolate… ma alla fine anche l’accenno di Grittiths era buono; peccato finisca per sembrare soltanto una parentesi appiccicaticcia nel pretestuoso per indurci a credere che esista un motivo per cui Dylan si trovi lì, metafore a parte, scarseggiando nell’incubo
.
Una mezza dimensione onirica si prospetta con la fine tragica della moglie di Owen e quella di Morris (81-82), ma è ancora troppo poco per deformare un incubo già abbastanza schematizzato su una settantina di pagine. E suonano decisamente sfilacciate dal resto, cosa sottolineato dalla scelta mezzatinta.
Decisamente meglio il gotha dirigenziale di primati che si prende a merdate in faccia, ma quando Dylan viene preso per mano sul tetto della megaditta,
la vera scimmia ammaestrata sembrava lui (88.iii) con quell’aforisma sboccatamente imboccato sull’inevitabiltà della soluzione violenta
.
L’alternativa sarebbe l’amore? Peccato che venga posta violenza alla psicologia di Kalyn che qui comincia a moineggiare sofismi da tenera suicidofilia, con venature di sacrificio idealizzato per l’imprecisata causa dell’amore, appunto
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Basta un sassolino tirato via dalla scarpa dei soprusi-macigni subiti dall’età della pietra per aprire nuove finestre agli orizzonti della rivolta?
Non sembrerebbe Simeoni faccia proselitismo anarchico in GB da questo punto di vista, perché alla fine basta godere di uno stipendio più alto per sedare subito degli inferiori sottopagati. Cosa che si presume non farà Mr Carpenter Predico-nel-vuoto visto che probabilmente il suo inferiore che ha appena sparato ad cacchium a Kalyn magari riceverà un cavalierato al lavoro per l’impresa di una pallottola pro-aziendale
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Finale ipotecato verso il bathos qualunquista di un uomo senza faccia in coda per il suo lavoro senza nome. Meglio farsi una gita da fannulloni fuori Londra finché il carburante avanza: ma attenti, che di solito misteriosamente il suo prezzo s’impenna intorno all’estate, e non sempre al meteo c’azzeccano
ad personam MI FACCI UN ALOHA, SE E’ UMANO