Dopo un po' di tempo, torno a commentare un albo di Dyd.
Non l'ho fatto per quello precedente perchè non mi aveva trasmesso
assolutamente nulla! Nè nel bene, nè nel male. E oggi, benchè sia trascorso poco più di un mese dalla lettura, non ricordo più neanche di cosa parlasse il soggetto. Mi pare di rammentare solo che c'erano degli aerei che facevano una gran caciara...
Quest'albo, invece, qualcosa lascia. Sia nel bene che nel male.
seguono possibili
S
P
O
I
L
E
R
La prima sensazione che l'albo mi ha trasmesso è stata da "
vorrei, ma non posso".
Vorrebbe sondare i risvolti più morbosi di certa arte figurativa, ma, visto il contesto (ossia il fatto che in Dylan Dog l'horror e lo splatter sono da tempo morti e sepolti
), può solo enunciarli rimanendo in superficie.
Mari fa del suo meglio, ma è lontano dai sublimi vertici espressionisti di
Phoenix. Per quel poco che vediamo dei quadri di Anita, non c'è molto da angosciarsi e da restare a bocca aperta. Di sicuro un qualsiasi scarabocchio di Francis Bacon o di H.R. Giger è centomila volte più inquietante di tutta l'intera produzione artistica della tipa!
Nel complesso, Baraldi e Mari si sforzano di creare continuamente sequenze "buie" e frammentarie per veicolare l'idea della morbosità della morte come soggetto artistico, inserendole in un contesto di penombra perpetua (persino le scene all'aria aperta sono piene di campiture nere!) - alla ricerca disperata di un'atmosfera cupa e malata che possa sopperire alla mancanza di sostanza narrativa.
L'idea dell'arte figurativa come finestra sull'abisso della morbosità è puerile (molto "emo" e modaiola...), ma potrebbe funzionare se adeguatamente supportata da sviluppi narrativi interessanti. Per un po', in effetti, funziona, ma la scarsa tensione montata a fatica si affloscia in un finale banale.
Perchè questo, in fin della fiera, è un semplice giallo dove ciò che davvero conta è la scoperta dell'assassino, la cui identità in teoria dovrebbe essere una sorpresa.
Purtroppo il giallo è gestito in maniera semplicistica, come nei vecchi albi di Ruju,
dove il colpevole si indovinava subito perchè era un personaggio presentato con tanto di nome e cognome in una manciata di vignette e che poi spariva dalla vicenda.
Dylan è come nel "periodo Gualdoni": un semplice spettatore.
Fa domande, pondera, cincischia, cazzeggia, ma alla resa dei conti non combina nulla e la vicenda si sviluppa e si risolve indipendentemente da lui (visto che tutto dipendeva dalla gelosia, l'assassina prima o poi sarebbe sbroccata comunque; non era necessario che Anita andasse a letto proprio con Dylan).
Anche i poliziotti sono come nel "periodo Gualdoni": incapaci!
Fin qui pensavo che Carpenter fosse antipatico ma un bravo poliziotto. Ora invece ho scoperto che è inetto come i miliziani di Brendon. Si fissa su una pista palesemente insensata e non cava un ragno dal buco. Riesce solo a rendersi più antipatico del solito (e ce ne vuole!
).
Accettabile, ma avrebbe potuto essere molto più incisivo, a prescindere dall'inesperienza della Baraldi come sceneggiatrice.