SPOILER SPOILER SPOILER
Il problema principale di questo albo, che peraltro, a mio avviso, non manca di aspetti interessanti, è proprio Barbara Baraldi.
Non ha proprio la
mano [sbagliata?] della fumettista.
Avevo apprezzato molto
Il bottone di madreperla perché in qualche modo le 32 pagine facilitavano il contenimento di alcuni eccessi.
La lunga distanza, invece, ha sciolto i lacci facendole esporre il fianco, che è a tutti gli effetti il fianco di una romanziera scarsamente propensa a farsi guidare dal nuovo mezzo.
Risultato: la lettura di questo albo, densamente impegnativa, è del tutto analoga a quella di un romanzo, o di un fitto racconto lungo.
Salvo le primissime pagine, credo non ci sia neanche una sequenza "muta": si oscilla comunque fra poche righe accompagnatrici e clamorosi sbrodolamenti antifumettistici.
Un esempio su tutti: la sequenza che va da pagina 20 a pagina 37.
Ripeto: da pagina 20 a pagina 37.
Praticamente un 20% scarso dell'intero albo, scorrevole come il traffico d'agosto in zona ferie.
Ma ho fatto molta fatica anche ad arrivare al fondo di una semplice pagina, la 54, un muro di aggettivi, una mitragliata di paroloni, una raffica di vento in faccia che ti costringe a procedere a rilento.
È lo stesso problema della primissima Barbato, con però un vago sospetto di dislivello nella sostanza.
La Baraldi è molto "estetica" in quasi tutte le sue manifestazioni, e la scelta delle tematiche e delle atmosfere dell'albo del mese ne è indiretta conferma.
La sequenza della morte, la 20-37, si chiude con una tirata sul suicidio che è spia di un'altra problematica interna, cioè quella dell'empatia verso la protagonista.
Che poi, diciamocelo, era una delle questioni fondamentali, insieme alla sua caratterizzazione generale.
Ebbene, ho percepito un po' di confusione in questo senso, la mancanza di un centro di gravità e di un obiettivo fisso nella delineazione del personaggio.
Alterna momenti di teatrale melodramma ad altri di toccante fragilità, altri ancora di una tranquillità quasi provocatoria, una spruzzata di erotismo soffuso a spizzichi e bocconi, lampi di possessione demoniaca e arrembante sangue freddo di fronte a un'assassina: più che ricchezza e complessità, mi ha dato l'idea del "buttiamoci dentro un po' di tutto".
Gli elementi ci sono, ma in qualche modo vengono "proposti" e accatastati senza un reale incastro.
Quando Dylan si chiede chi sia realmente Anita Novak, me lo stavo chiedendo anch'io.
E devo dire che non ho trovato una risposta soddisfacente.
L'aspetto più interessante della sua personalità, che in qualche modo salva l'albo regalandogli una dimensione ulteriore e motivi di riflessione, paradossalmente è quello che non c'è.
Vale a dire la proiezione schizofrenica ed esteriore di se stessa nelle figure di Ingrid e Rita, vere e proprie propaggini naturali di Anita, tanto che fatico a valutarle come personaggi indipendenti.
La prima incarna la tenacia e la determinazione della disciplina artistica, quella che ti sorregge e ti costringe a proseguire anche dove e quando non ne hai più. È tecnica e linfa vitale, onnipresente ombra che funge da protesi virtuale per l'arto mancante.
Rita invece È l'arto mancante, è la mano
giusta. È tutto quello che Anita non è [più] e non può essere. È la rappresentazione della vita che le è sfuggita di mano [sic!] e le fa concorrenza anche in amore, anticipandola nell'amplesso con il termine medio di tutta la vicenda.
È l'esatto opposto anche esteticamente, dove l'estetica qui è tutto, di nuovo e letteralmente.
Insomma, Ingrid e Rita come due colori del grande affresco di Anita e quindi da lei non separabili, che però, in quanto tali, possono permettersi la libertà di imboccare una direzione più univoca rispetto al magma originario che le ha generate. Forse distanziandolo anche come spessore.
Il risultato è coerente: una volta che la doppia negazione, cioè Dylan, si elide dalla proporzione, rimangono solo i due estremi, cioè Anita e Rita. Insieme. Le due mani si sono riunite in unico corpo e unica anima, nella vita e nella morte.
Ed ecco che Ingrid smarrisce del tutto la sua funzione, le parole di Dylan come pietra tombale:
Credo che invece sia tu, Ingrid, ad avere bisogno di lei. Oggi come ieri.E qui il cerchio si chiuderebbe, se non fosse che qualcosa viene a mancare: Marnie.
Viene a mancare in tutti i sensi, in qualità di personaggio privo di ruolo e ragion d'essere.
O meglio, è la protagonista del filo "giallo" della vicenda, che però alla fin fine rimane quello più marginale. Come lei.
La sua irruzione forzata in un meccanismo che non le appartiene, che può osservare giusto dallo spioncino e in cui si muove come il proverbiale elefante in cristalleria, dà luogo a una serie di coperture e motivazioni a dir poco sghembe.
Non regge l'infatuazione ossessiva che diventa odio, non reggono le invenzioni decisamente bizzarre per rovinare la vita ad Anita [quella dell'ascensore è decisamente pittoresca come tempistiche e come ideazione], e l'utilizzo della mano mozzata, già visto nella stessa forma in altri albi, vale giusto da pretesto per un'ottima tavola a pagina 95.
È l'incarnazione simbolica dell'ansia da spiegazionismo: eliminandola completamente dall'albo, e lasciando i delitti irrisolti, si sarebbe lasciata in gustosa eredità al lettore un'incognita da seconda [ri]lettura, alla caccia di un chi/cosa e di un perché.
I chi/cosa e i perché, intesi come domande a cui è il lettore che deve dare risposta, sono fra i grandi assenti degli ultimi anni di pubblicazioni.
Il tutto imbevuto nel tenebroso inchiostro di Mari, che qui è chiamato a un ruolo addirittura epico di "esteta dell'estetica".
Non solo perché deve rappresentare una rappresentatrice [Anita] o concretizzare in immagini una narrazione già intrisa di estetismi [anche musicali, e la doppia citazione NIN-Joy Division proprio non me l'aspettavo], ma anche perché a questo è destinato come comparsa, precisamente a pagina 64.
Efficace esempio di un coinvolgimento attivo del disegnatore a tutti i livelli, alla larga da svogliate mestieranze che tanto hanno afflitto le nostre pupille in tempi più o meno recenti.
Il risultato annunciato è uno dei migliori della sua produzione.
Come già sottolineato da qualcuno, qui i disegni giganteggiano sulla sceneggiatura.
Conclusione: una Baraldi immatura fumettisticamente parlando, non ancora pronta, che un po' conferma e un po' smentisce.
Conferma nella misura in cui ci si aspettava che buttasse nel calderone tutti gli elementi del suo immaginario, e così è stato.
Il risultato però è meno scivoloso del previsto, reggendosi di riffa e di raffa su alcune componenti talmente dense e corpose da dare sostanza [con un po' di fantasia e buona volontà].
Altra piccola sorpresa: me l'aspettavo più "giovanile" e meno "filosofica", più Evanescence e meno Bauhaus. Crescere è inevitabile.
Se sommergi una parete con una vagonata di vernice nera, alla fine qualcosa rimane per forza.
La speranza è che il tempo porti ad asciugare tutta quella vernice. Altrimenti, in futuro, si rischierà davvero di annegare in un fiume di parole.
Due parole doverose sul prossimo albo: se la Barbato denunciasse qualcuno per mobbing, sarebbe sistemata a vita.
Lasciatela riposare, sant'iddio.
Con 47 storie annuali tutte sue, mi chiedo come la qualità possa differenziarsi da quella del mese scorso.
Devo inventarmi una petizione umanitaria, qualcosa.
Voglio tornare a esclamare di gioia alla lettura del suo nome, non a domandarmi chi cazzo sia Nora Cuthbert.