Aggiungo un ultimo ragionamento - sì, lungo - tanto per la chiarezza.
Personalmente, come ho detto, non mi interessa porre un limite rigido tra la cultura "alta" e quella "bassa". Sono termini che per me hanno scarso significato, e in generale mi sembra che le discussioni al riguardo servano soprattutto ai difensori dei due ambiti a misurarsi tra loro con ragionamenti abbastanza sterili. Oltre a questo, il limite tra i due insiemi è molto labile e anche variabile con il passare del tempo (si veda quanto differentemente era considerato Hitchcock in vita e dopo la morte). Non è che io nemmeno abbia idee personali sulla validità o meno di questo o quell'autore, ma il punto è un altro.
Una volta Dave McKean ha detto una cosa molto intelligente, che provo a parafrasare per come la ricordo. Riflettendo su come i disegnatori di fumetti supereroistici degli anni '90 fossero in massima parte gente come Rob Liefeld, autori cioè di sgorbi immondi ipermuscolari e sproporzionati, McKean osservava che il problema è che, mentre in precedenza gli artisti utilizzavano come modello la figura realistica e le prospettive normali degli esseri umani, da un certo punto in poi i disegnatori hanno cominciato a ispirarsi direttamente a Jack Kirby, cioè a un artista che, dopo numerose sperimentazioni, era arrivato a concepire un suo stile consapevolmente esagerato e caricaturale. Il problema è che utilizzando Kirby come punto di partenza i disegnatori avevano dimenticato completamente come realizzare esseri umani riconoscibili e di proporzioni realistiche, e i loro stili avevano finito col diventare versioni sempre più esagitate ed estreme, molto sclerotizzate, dello stile Kirby.
Ecco, con le debite proporzioni per me per gli scrittori è più o meno la stessa cosa. Se uno ama Lovecraft, o Sclavi, o King, perché trova che lo stile di questi autori sia interessante e valido, fa bene a leggerseli per intero. Però se la stessa persona deve offrire un contributo personale (leggi: scrivere un libro) che vada al di fuori del semplice omaggio al loro beniamino, deve, oltre ad aver qualcosa da dire, anche saper attingere a una varietà di stili e influenze che vadano al di là non solo di quello scrittore, ma anche al di là dell'ambito del genere in cui quello scrittore ha fatto scuola. Perché i generi finiscono inevitabilmente per essere codificati, crearsi delle regole, e gli scrittori che vogliono davvero essere originali devono, a mio giudizio, comprendere le alternative, capire che il genere tutto è solo un'isola in un immenso mare della cultura. Magari rifacendosi proprio a grandi della letteratura riconosciuti come tali (riconosciuti quasi sempre a ragione, checché se ne dica), avendo l'umiltà di carpire loro altri modi di pensare, di scrivere, altri concetti. E anche altri stili.
Cosa sarebbe stato Dylan Dog senza Magritte, Buzzati, Villon, Dreyer e compagnia bella? Senza cioè la capacità di appropriarsi di influenze potenti, spesso completamente al di fuori del genere horror, ma in grado di dire qualcosa di importante sul tema della condizione umana? Probabilmente, solo la storia di un acchiappafantasmi.
Personalmente, odio le storie di vampiri. é diventato un mio chiodo fisso, me ne rendo conto, ma quasi tutte le storie di vampiri che hanno a che vedere con i classici elementi vampireschi (paletto nel cuore, aglio, fascino mortale), e che poi rappresentano la maggior parte dei romanzi/racconti/film incentrati su questo tema li trovo insopportabili. Perché sono sterili, eterne variazioni sullo stesso tema, pretendono di dare al fascino del mistero compostezza e regole, razionalità. Insopportabile. Poi uno si va a rileggere Carmilla di Le Fanu e scopre suggestioni completamente diverse e originali, le regole ci sono ma sono quasi irrilevanti, mentre la storia ha un fascino onirico enorme, pieno di cose non spiegate ed evocative. Ecco, qualcuno che scrivesse una storia di vampiri ma decidesse da subito di seguire le regole per me avrebbe fallito in partenza (a meno di non usare i vampiri come tramite per raccontare qualcos'altro, tossicodipendenza HIV invasioni apocalittiche, tutta roba vista e stravista comunque).
Per Dylan Dog è qualcosa di simile. Uno che conoscesse a memoria tutte le storie di Dylan Dog, tutti i romanzi di King, tutte le letture preferite di Sclavi e poco altro, ecco: uno così non lo metterei MAI a scrivere Dylan Dog. Perché mi sembrerebbe completamente ingabbiato, in grado se va bene di fare un omaggio a Sclavi e se va male di scimmiottarlo. Così come un limite di quasi tutti i registi horror contemporanei, quelli italiani almeno, è che sembrano sempre sclerotizzati sul miliardesimo omaggio (fatto anche da cani) a Fulci, Argento e Bava, e non a mettere da parte questi grandi e trovare una propria voce individuale.
C'è un problema su Dyd che ho cominciato a intravvedere quasi subito dopo che Sclavi ha cominciato a dare forfait, cioè addirittura un po' prima del numero 100. Scrittori che producevano storie che da un lato sembravano scimmiottare gli elementi più esibiti e superficiali del cosmo dylandoghiano, e dall'altra non avevano nessuna forza o convinzione, solo il vago desiderio di ambientare le loro avventure in un mondo genericamente fantastico. Così magari c'erano albi in cui Dylan scriveva sul diario ed enunciava massime da un tanto al chilo (qualcuno ricorda l'orribile Sinfonia Mortale, del resto plagio pazzesco de Il Signore del Male e Manitù - Lo spirito del male?) e contemporaneamente toglieva al fantastico ogni fascino, faceva agire Dylan come un consapevole cacciatore di mostri che accettava tranquillamente l'esistenza di esseri maligni. Dimenticando la lezione più difficile e anche più importante del Dylan sclaviano, ossia che il personaggio viveva di suggestioni e non di regole e di certezze (fateci caso: quasi mai nei primi 100 numeri Dylan affronta mostri o creature con la consapevolezza di farlo, l'elemento fantastico agisce indipendentemente o salta fuori nel "twist" finale, a rimettere in dubbio eventuali spiegazioni razionali).
Alcuni di questi autori (Manfredi, La Neve), hanno altrove dimostrato di possedere una loro voce e originalità, provando quindi di essere semplicemente poco a proprio agio con il mondo dylandoghiano (o ingabbiati da gabbie editoriali troppo strette). Altri, secondo me assai più modesti (De Nardo...) non avevano in alcuni casi la capacità o la forza di esprimere qualcosa e si adagiavano sugli stereotipi più triti dell'universo dylandoghiano o horror, dimostrando di conoscerne le regole ma non di saperle superare o di piegarle al servizio di una storia davvero valida.
Per quello, nonostante apprezzassi Ruju e abbia amato molto Paola Barbato (su Dylan, non sui romanzi, anche se ne ho letto solo uno), credo che l'unico autore che presentasse una vera alternativa a Sclavi, una vera voce forte e distinguibile, avrebbe potuto essere Ambrosini. Perché pur conoscendo a fondo il personaggio, la sua versione viveva di un fascino e di una suggestione che travalicava i dettami sclaviani, se ne fregava delle regole dell'horror e "pescava" in un mare culturale vastissimo senza affrontare gli stessi ambiti che aveva a suo tempo affrontato Sclavi, a volte persino aggirando i limiti di Sclavi stesso. Non epigono del Dylan sclaviano e nemmeno suo apocrifo: un suo analogo, piuttosto.
Ultima modifica di Myskin il mar ago 18, 2015 7:35 pm, modificato 3 volte in totale.
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