Anche io ho letto con cura il parere di Dogamy, e concordo almeno su un certo sentimento generale di lettura. Che si può così tradurre: non mi piace granché il Dylan di questa storia (n. 337). A dire meglio: non mi piace granché il Dylan di Recchioni. Il quale Recchioni, detto tra noi, è un buono scrittore di fumetti: merce davvero rara, o anche rarissima, oggidì. Solo che non c'entra nulla con Sclavi, e con il Dylan di Sclavi. Nessuno, però, c'entra più di lui. Malgrado un'opinione corrente, non mi pare che Paola Barbato abbia qualcosa di Sclavi (in quanto scrittrice di fumetti, per esempio, le manca completamente l'ironia, e inclina a un sentimentalismo non di rado abbastanza greve). Che dirci, allora? Intendo: il lettore di DyD dei buoni vecchi inizi che può fare? Sclavi non scrive più il suo personaggio, e a noi non restano che due scelte, ambedue ragionevolissime: o abbandonare DyD per sempre, o rassegnarci al fatto che da ora in poi sarà cosa completamente differente da quella che fu. Il che si potrebbe riassumere con un un bel motto: Dylan Dog è morto! Evviva Dylan Dog!
Ciò detto, qualche considerazione su questo albo 337. E' appena uscito, ma è stato già ampiamente dissezionato. Non mi sento di ridire molte cose già appuntate (il frontespizio...). E quindi: disegni davvero notevoli. Ma il colore li ammazza: questa furia coloristica del nuovo corso Bonelli non mi sembra così saggia. Tira verso un'estetica da gioco elettronico o da immagine glamour che potrà essere un abile trucco di marketing (vedremo...), ma in DyD è abbastanza fuori luogo. Se poi i disegnatore 'colorato' è Mari (lo stesso varrebbe, per dire, con Roi) si fa due volte danno. Oltretutto in una storia nello spazio...
La storia è quadrata e ben costruita. Va bene, c'è lo spiegone, ma non è in fondo, e non ha funzione di
deus ex machina narrativo. Bella differenza con tanti degli ultimi episodi. Non ha torto Dogamy sul fatto che il 'costrutto mnemonico' ecc. sia un escamotage narrativo debole assai, ma Recchioni è bravo a mimetizzare il punto debole. Anche in quello si vede uno sceneggiatore che conosce il mestiere (semmai, ma è incidente veniale, un po' goffo il tentativo di riprodurre il frasario scientifico nello spiegone, e soprattutto a p. 19, dida 1: "
Implementarono questa personalità
in corpi sintetici creando delle repliche
ecc. ecc.". Non si
implementa+[oggetto]+
in: siamo ai limiti del solecismo sintattico: un'occhiatina al dizionario, per vedere il reale significato del verbo 'implementare', di là da come lo si usa allegramente in rete, aiuterebbe). Anche a me sembra che il finalino, che vorrebbe risultare angosciante, angosci assai poco, e odori decisamente di interruzione brusca e infelice. A forza di mettere Dylan -- o una sua replica sintetica -- nelle situazioni più ingarbugliate, si finisce per non sapere più come chiudere la storia.
Ma il punto è proprio in questa ormai inarrestabile tendenza a mettere Dylan in situazioni abnormi, astratte dal suo universo narrativo, volutamente e ricercatamente fuori-luogo ecc. E' uno stratagemma narrativo interessante, ma da usare con il contagocce. Questa storia, qualcuno l'ha giustamente osservato, è ancora molto simile a quelle della fase gualdoniana (e potrebbe benissimo essere stata concepita allora). Va bene: è costruita infinitamente meglio di tutte quelle che le assomigliano, ma siamo sempre lì. Può darsi che tutto si spieghi con l'ideale n. 0 (questo non è ancora il nuovo corso di Dyd, ma una sorta di copertina ideale, un prologo simbolico, con un 'finto' Dylan che in certo senso si autodenuncia per quello che realmente è: un clone)... Può darsi. Ma non sarebbe male che, prima della fine del nuovo secolo, la Bonelli pubblicasse una buona vecchia storia in cui Dylan è a Londra e indaga (è un investigatore, no?) su un fenomeno paranormale, senza avere figli o mogli (forse) immaginarie, senza che Groucho sia scomparso per andare a fare il clown in un circo o che si sia tramutato in uno zombie, senza che la Morte o la Vita gli abbiano accoppato chissàchi per metterlo alla prova e via discorrendo.
Insomma, riusciamo a inventare una storia senza usare 4 quintali di spezie per 20 grammi di carne?
P.S. @Maiden501 -- Ho riguardato, e hai ragione. Se questo è il risultato, io però non mi preoccupo. Hai ragione su un punto, d'altra parte: c'è il rischio che si inizi con una certa anda accuratissima, e alla lunga si finisca al lettering amorfo e tutto uguale di altri editori, cosa che sarebbe insopportabile. Se ogni letterista, per esempio, campiona la sua scrittura, e ogni tanto rinnova il processo, non dovremmo finire in direzione di uno 'stampato' appena travestito. Speriamo che in casa Bonelli mantengano una certa vigilanza sul fenomeno. E ricordino sempre l'arte di Piero Ravaioli o Renata Tuis, che ancora mi sembrano ineguagliati.