Ciao a tutti. Ho trovato molto interessante la vostra conversazione su “L’assassino della porta accanto”, e il fatto che con il crescere delle opinioni e delle pagine di commenti vi stiate interrogando su quali siano gli elementi che hanno colpito (e diviso) così tanto in questa storia. Se lo ritenete un contributo utile, vi posso dire da “esterna” perché giorni fa ho deciso di iscrivermi su questo forum per votare ottimo.
Io credo che il lettore di Dylan Dog non sia abituato all’idea di uno stile di scrittura ALTRO rispetto a quello di Sclavi. Sclavi ha creato un format di storia, un modo di articolare gli eventi narrati, di concepire i dialoghi, di sbozzare i personaggi, di costruire i colpi di scena. Gli sceneggiatori che si sono avvicendati dopo di lui si sono adeguati a questo format narrativo senza reinventarlo, trasformando quindi questo modo di raccontare in un clichè, in una specie di mascherina utilizzata per ottenere sempre lo stesso prodotto.
Nessuno degli sceneggiatori del dopo-Sclavi ha davvero messo in campo un’impronta propria. Credo che nessun lettore, nemmeno il più scafato, leggendo due pagine di una storia qualsiasi dell’Indagatore dell’Incubo senza conoscerne il nome dello sceneggiatore, sia in grado di riconoscere chi l’ha scritta. Al massimo potrà intuire se è una bella storia o no, e a quel punto potrà azzardare qualche nome tra gli sceneggiatori di fascia alta (non faccio nomi perché non mi va di creare le mie liste personali di buoni e cattivi). I migliori scrittori di Dylan degli ultimi anni hanno certo evidenziato tematiche predilette che li caratterizzano, ma non strutture narrative originali, che consentano al lettore di riconoscerne lo stile e di dire: “Dai dialoghi, dalla costruzione della tavola, dal ritmo narrativo, questa storia l’ha sicuramente scritta Tizio”.
“L’assassino della porta accanto”, invece, cambia le carte in tavola, e lo fa bruscamente. Narrativamente parlando, tutto in questa storia è diverso dal solito Dylan Dog, e questo finisce per disorientare il lettore: sono totalmente differenti i dialoghi (che, leggendo i commenti, qualcuno definisce brillanti, qualcun altro l’esatto contrario, cioè piatti), la caratterizzazione dei personaggi (definiti nei commenti di volta in volta stereotipati, brillanti, banali, sfaccettati, sopra le righe, antipatici, simpatici), la caratterizzazione del protagonista (messo provocatoriamente in disparte), i ritmi narrativi (definiti di volta in volta serrati e lenti, avvincenti ed estenuanti). Tutto questo perché quello dell’autore di questa storia è un ALTRO modo di raccontare, un ALTRO stile. Questo stile sta alle storie tradizionali di Dylan come il cinema indipendente sta al cinema mainstream, come una serie della Dark Horse sta a un albo della Marvel.
Lo stile non è altro che la personalità messa in campo dall’autore nel narrare una storia: in “L’assassino della porta accanto” di personalità ne ho vista davvero tanta. Io credo che il lettore di Dylan Dog non sia abituato a sentire la presenza di un Autore all’interno di una storia del suo eroe preferito. Un Autore che decide (più che legittimamente) di non spiegarti una cosa che chiunque al posto suo ti avrebbe spiegato, che non dà al protagonista il peso che qualsiasi altro sceneggiatore al suo posto avrebbe dato, che non fa parlare i personaggi nel modo in cui chiunque altro li avrebbe fatti parlare, che conclude la storia in un modo in cui nessun altro l’avrebbe conclusa. E questo perché è il SUO stile, il SUO modo di raccontare. Intenzionato ad essere diverso da tutti, finalmente anche da Sclavi.
Da grande appassionata di cinema, la saga di Dylan Dog mi ricorda quella di 007. Entrambe di lunghissimo corso, entrambe con un periodo d’oro iniziale oggi ricordato con nostalgia e venerato (Sean Connery / Roger Moore da una parte, Sclavi dall’altra). Entrambe, dopo il leggendario periodo iniziale, hanno avuto film/albi fondamentalmente tutti uguali, girati/scritti con lo stampino, nello stesso modo, con lo stesso stile derivativo che scoloriva sempre più di pellicola/fumetto in pellicola/fumetto.
A un certo punto ogni nuova avventura del protagonista (sempre tragicamente identica a quella precedente) poteva essere giudicata dagli spettatori/lettori da un massimo di “abbastanza carina” (sempre più raro) a un minimo di “bruttina” (sempre più frequente). I giudizi non andavano mai sopra e mai sotto queste due soglie. Tutti sapevano che di capolavori nella serie non ne sarebbero più usciti: si auspicava solo che ogni nuovo episodio fosse accettabile e non indecoroso. Nulla di più.
Anno dopo anno, i fan hanno iniziato a lamentarsi, piangendo il declino della serie, rimpiangendo i bei tempi andati e auspicando che un giorno o l’altro qualcuno avesse la voglia e la forza di tentare strade nuove, per evitare che il personaggio si isterilisse fino a morire di inedia. Finchè, nel 2006, è arrivato “Casino Royale”. Che mi è balzato subito in mente quando ho letto “L’assassino della porta accanto”.
Con quel film, finalmente, la produzione ha deciso di cambiare radicalmente, di imboccare per la prima volta in trent’anni una strada nuova. Ecco dunque un Bond biondo anziché bruno, con un ruvido viso da pugile anziché con le solite eleganti fattezze da damerino, che fa l’innamoratino e persino il maritino. In più la produzione chiama a scrivere il film uno sceneggiatore premio Oscar dall’impronta molto forte, Paul Haggis. Il quale si inventa scene mai viste in un film di 007: Bond che sotto la doccia invece di consumare il solito, furioso amplesso bacia teneramente le mani della sua bella, che piange disperatamente per amore (Harmony?), una tipologia di dialoghi completamente diversi dal solito e anche una serie di sberleffi ai fan della saga: la frase “Il mio nome è Bond, James Bond” viene pronunciata all’ultimo secondo del film, quando lo spettatore l’aveva ormai data per perduta; e quando un cameriere chiede a 007 se il suo Vodka Martini lo vuole “shakerato o mescolato”, Bond invece di dare la risposta che tutti si attendevano (“shakerato”) risponde sprezzante “cosa volete che me ne freghi” (mi è tornata in mente questa scena quando ho letto nell’albo la sequenza del brindisi dell'astemio Dylan nel pub, in cui solo all’ultimo secondo si scopre che sta bevendo limonata).
Risultato: un film che a me ha fatto letteralmente impazzire. Per la prima volta in trent’anni, tre quarti dei fan di 007 sono tornati a parlare di un “capolavoro”, tributando a “Casino Royale” un consenso enorme e promuovendolo di diritto tra i migliori titoli della serie, tra classici come “Licenza di uccidere”, “Dalla Russia con amore” e “Goldfinger”. Paragoni che naturalmente hanno fatto imbestialire la minoranza che ha considerato il film “schifoso”, che ha bollato questi accostamenti come “folli” o “blasfemi” e che addirittura ha disconosciuto “Casino Royale” come film di James Bond, vista la melensaggine del personaggio e i numerosi tradimenti dei canoni della serie.
Il film successivo della serie è stato un mesto ritorno nel solco della tradizione: “Quantum of Solace” è stato un titolo che ha suscitato le solite reazioni oscillanti tra l’“abbastanza carino” e il “bruttino”. Nessuno ha più parlato di film “schifoso” e, naturalmente, tantomeno di “capolavoro”.
Tutto ciò per dire che… il 307 mi ricorda 007. La mia sensazione è che “L’assassino della porta accanto” sia stato per Dylan quello che “Casino Royale” è stato per James Bond, sia in termini di entusiasmi che in termini di obiezioni. Ha mostrato come la serie potrebbe rinnovarsi nello stile di scrittura, se solo lo si volesse. Come dimostra l’enorme mole di commenti, questo albo è stato finalmente qualcosa di diverso, di personale, di veramente nuovo anche e soprattutto in termini di modalità narrative. Rispetto agli anonimi hamburger che ci vengono serviti ogni mese, questa storia è stata come un bel piattone di anatra all’arancia. Ci sta benissimo che non sia piaciuta a tutti, ma per chi ama la buona tavola è stato davvero un bel mangiare. Una volta tanto.
Scusate se sono stata lunga e noiosa.
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