Parlando dello Speciale di quell'anno, "Labirinti di paura", avevo scritto che il Chiaverotti del 1994 era stato come un tennista talentuoso penalizzato da infortuni, fatica, e a tratti una certa svogliatezza, che dopo aver deluso per tutto l'anno si riscattasse vincendo Wimbledon. Dopo aver riletto "Falce di Luna", devo correggere e ampliare la metafora: non solo Wimbledon, ma pure gli U.S. Open. (O il Masters, vista la data di uscita.)
Nel giro di pochi mesi Chiaverotti realizza due (tre, contando "Lo sguardo di Satana", uscito in quei mesi sulla serie regolare) delle sue storie migliori, accomunate da un elemento fiabesco che poi diventerà predominante nella sua produzione successiva (su Dylan Dog -ma in fondo anche Brendon, per quanto ricordi, aveva spesso atmosfere di quel tipo). È naturalmente il finale, uno dei suoi epiloghi più geniali, a farla entrare di diritto nella mia top ten: ma l'intera storia è molto solida, e dimostra una maturità narrativa non scontata nella scelta di rivelare da subito l'identità del killer. Quanto al soggetto, sono abbastanza sicuro che si sia trattato di una sorta di sfida che Chiaverotti ha lanciato a sé stesso -lo immagino sedersi a tavolino e iniziare a pensare: "vorrei fare una storia in cui ammazzo un bel po' di bambini... ma come faccio a rendere narrativamente interessante il peggior crimine possibile?".
Ammetto che si tratta di una rivalutazione: all'epoca non mi aveva colpito più di tanto, probabilmente perché era decisamente più tradizionale rispetto a "Marionette", e dopo essermi rifatto gli occhi con i disegni di Brindisi le tavole di Dall'Agnol mi erano sembrate un po' troppo spartane, essenziali -uno stile che ci avrei messo più tempo per imparare ad apprezzare, anche se oggi mi sembra perfetto (e, quel che più conta, perfettamente adeguato alla storia).
Neppure "Marionette" mi era sembrata una grande storia, a dire il vero: ma aveva un che di sclaviano, un tono malinconico con punte decisamente nere che me l'aveva resa in parte accattivante, pur con diversi difetti -soprattutto un Groucho particolarmente invadente e altrettanto irritante per la bassa qualità delle sue battute. Oggi, di quella che credo sia la storia dylaniana più lunga non apparsa in uno speciale (escludendo ovviamente le storie doppie della serie regolare), riesco a salvare solo i maestosi disegni di Brindisi, che approfitta del grande formato per realizzare tavole ricche di dettagli, sia in interni che in esterni, ricorrendo spesso a campi lunghi o lunghissimi (ho letto nelle pagine precedenti del thread che la stampa avrebbe penalizzato la bellezza dei suoi disegni, e quasi non riesco a crederci, visto che già mi pare una delle sue prove migliori.)
Il problema è nella sceneggiatura, e adesso ho l'impressione che la causa inizi a intravedersi ancor prima dell'inizio, ossia a partire dalla scelta di Gonano di usare uno pseudonimo (anche se Brindisi prova a sabotarlo -si veda, a pag. 38, la scritta "G.ONAN" sul retro di un furgone
). All'epoca, se non ricordo male, si sospettò che dietro quella sigla ci fosse un altro sceneggiatore bonelliano, creatore o autore di punta di qualche altro personaggio, che aveva scelto il semi-anonimato un po' per gioco, un po' per evitare che il lettore dylaniano lo associasse al suo personaggio principale (o, viceversa, che il pubblico del suo personaggio principale lo associasse a Dylan Dog).
Adesso, dopo aver scoperto la sua identità, ho invece il fortissimo sospetto che Gonano si vergognasse un po' di far apparire il suo nome su una testata come Dylan Dog, forse perché considerato un fumetto dal target adolescenziale. Il che spiegherebbe non solo lo pseudonimo, ma anche l'estrema "letterarietà" (che significa anche, ma non solo, verbosità: si vedano le riflessioni in voce over di Julia) della storia, il suo indulgere in tematiche "serie" ibridandole con riflessioni esistenzial-filosofiche alla Sclavi. La scelta di aprire con la morte della ragazza di Dylan è insolita, anche se costringe di fatto a narrare quasi tutto in flashback -soluzione che del resto è coerente con i risvolti noir della storia (con echi di "Chinatown" di Polanski, oltre che forse dell'Ellroy di "Dalia Nera"), ma che rende non sempre scorrevolissima la lettura.
Si vede, come detto, che Gonano prova a rifarsi a Sclavi, ma i risultati sono pasticciatissimi, sia nei dettagli (goffa e pretenziosa la canzone di pag. 110, fastidiosi oltre ogni limite Groucho e la parlata "robotica" di Robbie, un Dylan alternativamente cupo e apatico che si riscuote dal torpore solo per coprire le prove di un omicidio), sia nel complesso. Deludono in particolare il tono paternalistico e lo stile didascalico dell'autore: la metafora burattinesca viene sottolineata (anche nei dialoghi) appena possibile, come se non ci si fidasse dell'intelligenza del lettore medio di Dylan Dog -il tema della libertà e delle catene che ci vincolano viene portato avanti per tutta la durata della storia, ma non si capisce dove si voglia andare a parare; e perfino l'epilogo è confuso, al punto che non si riesce neanche a scoprire se Stromboli fosse al corrente (e quanto eventualmente fosse complice) dei delitti di Robbie, il cui movente e le cui dinamiche, a loro volta, non è che siano proprio chiarissimi.