Ennesimo albo mediocre.
Ormai è diventata la norma.
seguono
SP
O
I
L
E
R
Qualcuno in redazione deve (giustamente) aver fatto notare a Gualdoni che gli vengono meglio le storie brevi di quelle lunghe. Così l'autore ha sfornato un albo
omnibus dove un racconto 'cornice' fa da contenitore a tre episodi sostanzialmente a se stanti, se non per il tema -molto generico, a dir la verità- del serial-killer.
Buona l'idea, ma la realizzazione proprio non va.
A differenza del recente albo di Mignacco/Brindisi (a me piaciuto molto), in cui il protagonista degli episodi è effettivamente Dylan, qui abbiamo tre racconti in cui il personaggio Tizio o il personaggio Caio ha la faccia di Dylan. Nient'altro.
Il Dylan di Mignacco era effettivamente Dylan, non tanto perchè facesse l'indagatore, ma perchè aveva le caratteristiche psicologiche di Dylan: l'umanità di fondo temperata da un certo disincanto, il misto di romanticismo e rassegnazione... Il Dylan degli episodi di Gualdoni non ha nessuna di queste caratteristiche.
Per citare e parzialmente emendare Dogares
noi non vediamo Dylan in abiti ottocenteschi, ma un tizio dell'Ottocento con la faccia di Dylan. Potrebbe anche avere la mia faccia e non cambierebbe nulla (a parte essere mooooolto meno sexy
).
E' questo il principale problema, non tanto il fatto che l'immedesimazione di Dylan 'non è spiegata'.
I tre racconti hanno anche altri problemi. Passi che non contengono elementi originali (sarebbe stato pretendere troppo!), ma la direzione narrativa presa dallo sceneggiatore è puntualmente la più ovvia e la più banale.
Prendiamo per esempio il primo racconto.
E' stato giustamente notato che si ispira alla vicenda di Burke & Hare, già trasposta al cinema innumerevoli volte (a parte il recente film di Landis, segnalo
Le jene di Edimburgo di John Gilling con Peter Cushing e
La jena di Robert Wise con Boris Karloff - recuperateli se potete! Sono bellissimi, specie il secondo!).
Tutti gli autori/cineasti che hanno narrato la vicenda hanno puntato i riflettori sui due procacciatori di cadaveri, Burke & Hare, e
NON sullo scienziato che li studiava, il dottor Knox.
Perchè? Perchè l'angolazione era più insolita e permetteva uno studio socio-politico non banale. Le azioni di Burke & Hare rivelano come un tempo, nella Gran Bretagna dell'Ottocento, la vita umana non valesse nulla, mentre paradossalmente valesse qualcosa la morte (i due uccidevano per 'fabbricare' cadaveri freschi e poi intascare denaro dal dottore, ignaro delle loro azioni).
Invece, puntando i riflettori sul dottore, cosa ottiene Gualdoni? Nient'altro che la centomiliardesima variante dello 'scienziato pazzo'!!!!!
La banalità ha un nuovo vangelo: le sceneggiature gualdoniane.
Gli altri due racconti sono in sintonia: banali, prevedibili, senza guizzi.
La cornice affossa definitivamente la storia.
A me sembra ispirata da un racconto a fumetti di Alan Moore del ciclo ABC. Anche lì, guarda caso, c'era un serial-killer che usava il martello, anche lì avveniva uno scambio d'identità e anche lì la colpevole si rivelava una donna...
Vabbè, saranno coincidenze.
Quel che è certo è che mentre nella sceneggiatura di Alan Moore tutto quadrava a perfezione, come un puzzle cesellato al millimetro, qui tutto appare pretestuoso e sconclusionato. Inutile sottolineare con la matita rossa questo o quel dettaglio: l'hanno già fatto meglio di me gli altri forumisti.
Mari risolleva un pochino la pericolante baracca, ma si vede che non è ispirato. Come Brindisi e Casertano, è un autore che dà il meglio di sè con sceneggiature buone. Quando la struttura scricchiola, non può far altro che affidarsi al suo (peraltro eccellente) professionismo.