In uno spazio breve avete già sviluppato una certa quantità di riflessioni interessanti, per cui perdonatemi la ripetitività , ma non ho altri modi di illustrare il mio punto di vista. Saranno poche note.
S
P
O
I
L
E
R
• La patente ripresa degli stilemi sclaviani – dal soggetto-pretesto che si sviluppa per quadri giustapposti di sapore spesso onirico-surreale alle divagazioni ‘sull’uomo della strada’*, dal registro ironico e paradossale alla retorica sull’umana disumanità e via di questo passo – non sfocia comunque nella copia pedissequa e spersonalizzata. La mano di Di Gregorio resta visibile e d’altro canto più d’uno di questi e altri elementi che, setacciando, si possono rilevare fa parte del registro di scrittura del Nostro. Non è tutto oro quello che luccica, certo: non posso non convenire sul fatto che in certi punti si respiri manierismo, ricerca eccessivamente insistita di effetti ironici (la strage!) o d’impatto (certe parentesi oniriche). O che qualche snodo non scorra via liscio, ad esempio l’atteggiamento di Bloch rispetto al fatidico prestito.
• Alcune scelte, però, sono argute: in particolare ho trovato fulminanti, ad esempio, la sequenza della mora che si aggrava per pochi minuti di ritardo (colpa del malfunzionamento dell’ascensore: pp. 62-66) o il finale, degno coronamento amaro di una vicenda strana e annichilente.
• Coinvolgente la spirale di difficoltà che – con sadismo barbatiano, si può dire! – stritola un Dylan particolarmente reattivo e vivace, l’esatto opposto della figura abulica che purtroppo di questi tempi prende spesso il sopravvento. Forse a tratti sin troppo sopra le righe (anche qui come può capitare con Barbato?), ma nel complesso funziona non male. Al di là di qualche eccesso nelle stesse di cui dicevo, è una scelta non sciocca riservare alle sequenze oniriche certe scene troppo forti per credere nel loro inveramento (l’ubriacatura e la rissa con accoltellamento, la morte di Bloch!); e oltretutto costituiscono dei gradevoli strumenti per scandire la narrazione**.
• In forma smagliante Groucho, che non esaurisce il suo ruolo nelle due battute di prammatica, ma al di là delle freddure deprimenti – com’è giusto che sia – sa rivelarsi buon amico e persona capace d’iniziativa. Fa piacere constatare che qualcosina pare smuoversi rispetto al prolungato completo oblio del baffuto comprimario (penso a qualche guizzo di fine 2009). Benino Bloch, che non manca di manifestare la confidenza e l’affetto paterno che lo legano a Dylan, ma poi assume lo strano atteggiamento di cui sopra. La Morte, invece, è poco incisiva e si limita a vagare dispensando giustizia spicciola per poi sciogliere la situazione da
deus ex machina. Onesti gli altri personaggi di contorno –
villain incluso, se così si può definire – che svolgono dignitosamente la propria funzione.
• Una parola sui disegni. Boh, io non vedo Casertano magicamente trasfigurato: semplicemente il tratteggio è talora più ricco, come detto appunto dall’
Horror Club. Anzi, al di là di qualche eccesso espressionistico/caricaturale (cui raramente ormai rinuncia) l’ho trovato curato ed espressivo, senz’altro piacevole.
Insomma, la mia percezione è quella di un albo che si legge senza eccessivi patemi e senza eccessiva noia, abbastanza vivacizzato da una discreta gestione di attori in scena, scambi dialogici, tempi e modi narrativi. Quel minimo di qualità che auspicherei dovrebbe essere garantita ogni mese.
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* Qualcosa di simile, in tempi recenti, aveva fatto capolino ne Il piccolo diavolo, ma con minor efficacia.
** Si può notare, en passant, come proprio in questi flash e poi soprattutto nel dialogo finale con lo spettro di Sterling si gettino dei semi di riflessione sul timore dello stigma che può derivare dal prossimo (Dylan evasore, ciarlatano, restio a guadagnarsi da vivere col sudore della fronte, favorito dalle proprie amicizie, egoista verso gli amici che pagano per le sue colpe). Il tema era stato esplorato approfonditamente e sotto altra prospettiva nel recente Il giardino delle illusioni.