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Per scrivere un buon Dylan Dog non è necessario partire da un soggetto ben definito. Si può anche navigare a vista, lasciando che siano i dialoghi e le singole sequenze a sviluppare la trama. A patto, però, che dialoghi e sequenze siano tanto avvincenti da far passare in secondo piano l'inconsistenza del soggetto. E' il caso, per esempio, di ?Ucronìa? o di ?Cose dell'altro mondo?.
Ne ?Il giardino delle illusioni?, invece, la Barbato trascura non solo il soggetto, ma anche la sceneggiatura. Il risultato è un albo pretenzioso e di difficile comprensione.
La trama sta tutta nelle pagine 9 e 10, dove Dylan ricorda a se stesso (e ai lettori) il motivo per cui si trova nel giardino maledetto. Il resto è un continuo vagabondare da una zona all'altra del giardino alla ricerca di una via d'uscita.
Nella storia non ci sono dialoghi, c'è un unico interminabile monologo di Dylan. La scelta narrativa di per sé è coraggiosa, ma non è sostenuta da una buona sceneggiatura. Dylan, infatti, è una macchietta logorroica: parla da solo a voce alta, dice tutto e il contrario di tutto, prima prende una decisione e poi ne prende un'altra di senso opposto, si abbatte e si consola, piange e subito dopo ride in modo isterico, cambia continuamente umore. I suoi atteggiamenti schizofrenici e le sue autocommiserazioni lo umiliano e lo rendono ridicolo: più che un detective privato il protagonista sembra una zitella in menopausa colpita da una crisi di nervi. La sceneggiatura, inoltre, è piena di fastidiosi psicologismi, di battute ripetitive (?Non devo pensare!?; ?Calmo, devo restare calmo?; ?Non devo smettere di parlare!?; ?Calmo, controllati?; ?Non devo pensarci!?; ?Devo calmarmi!?) e di frasi involontariamente comiche (?<i>Dylan Dog nel paese delle meraviglie</i> in effetti suona maluccio?; ?..terra umida, fredda, cedevole... come quella delle grotte... e io... io odio le grotte!?; ?Forza, coraggio! Venite da paparino?; ?Va bene, terrorizzatemi pure... sono pronto!?; ?Questo è per il buffone! Questo per il ciarlatano! Questo per lo sfruttatore!?). Il fondo del barile viene toccato quando Dylan, non sapendo come fare per trasportare fuori dalla villa le otto persone in catalessi, si limita a dire: ?Non sono un medico... ma qui dentro non vale quello che penso, ma quello che credo, giusto? Per quanto ne so, i catatonici possono compiere movimenti automatici, come aprire gli occhi, tenere in mano un oggetto... e camminare?. <i>Et voilà</i>, in un batter d'occhio Melissa e gli operai sono in piedi, muti come zombi e pronti a ubbidire agli ordini di Dylan.
Anche il finale è tutt'altro che convincente. E' vero che spesso la Barbato cade nell'errore di spiegare troppo, ma qui l'autrice butta via il bambino insieme all'acqua sporca: a pagina 94 la storia viene troncata in malo modo. Cosa fa Dylan di particolare per guadagnarsi l'uscita dal labirinto? Si arrende alle proprie paure? No, perché molte di quelle paure le aveva già affrontate e vinte nelle pagine precedenti. Si dichiara sconfitto? Neppure, perché si era già scoraggiato e arreso più volte nel corso della storia. Insomma, Dylan non fa praticamente niente: è la villa che, inspiegabilmente, a un certo punto si stanca di giocare con lui e decide di liberarlo.
E Cagliostro? E' una semplice comparsa o la sua presenza ha un significato specifico? Può darsi che l'intera vicenda sia collegabile a una magia o a un sogno del gatto, ma per fortuna la Barbato ha il pudore di non rendere esplicita una soluzione così banale.
L'albo del mese è, nel complesso, un esperimento fallito. Se l'autrice ha voluto comunicare un messaggio, quel messaggio è tanto oscuro e contraddittorio da non essere comprensibile. Se ha voluto mostrare nuovi aspetti del carattere di Dylan, si tratta di aspetti che avremmo preferito non conoscere.
Osare è legittimo, ma bisogna stare attenti a non perdere la bussola.
V.M. (vietato ai minori)
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