Non sarò breve.
Rispondo a Alemans123 dal thread delle anticipazioni relative al numero. La
questio partiva da
una recensione abbastanza negativa di Fumettologica, in cui ci si concentrava su una supposta caratteristica del Dylan Dog recente, che consisterebbe nella tendenza a farne un personaggio passivo, non agente nella storia, ma agito dalla storia. Concetto da me tradotto, facendo il fessacchiotto, con la formula ammiccante
vittima degli eventi (che brutto quel corto, en passant).
alemans123 ha scritto:
Che poi non capisco molto questa polemica su DD vittima degli eventi o che non agisce. A me pare che sia stato spesso anche in periodi precedenti vittima degli eventi. In "Memorie" viene salvato dall' uomo invisibile, in molti albi di Chiaverotti viene contattato dalla stessa assassina (Il Buio ad esempio).
Nel numero 1 usa un clarinetto esplosivo, nel 2 viene salvato da una statua scongelata e ci possono essere altre situazioni di questo genere che ora non ricordo.
L'Indagatore dell'Incubo non è mai stato scritto come un detective scientifico/deduttivo: preferisce un approccio intuitivo/irrazionale, caratteristica in comune con il suo autore. Dylan Dog è sempre stato in buona parte vittima degli eventi (se vogliamo usare questa formula). È in questo buon erede della narrativa Chandleriana, in cui il detective non gioca di solito il ruolo di attore risolutivo raziocinante, alla Holmes o alla Poirot, quanto quello del grano di sabbia che entrando nell'ingranaggio del "caso" lo inceppa, o meglio ne altera il funzionamento fino a condurre gli eventi a risoluzione (anche se non sempre, soprattutto nello Sclavi più pessimista). Potremmo definirlo un detective Eisenberghiano, nel senso che la sua sola presenza come osservatore del fenomeno ne produce l'alterazione e la soluzione. Nel caso di Dylan Dog, ma anche di Marlowe, l'osservazione avviene da un punto di vista morale. Nel Dylan Dog di maniera, diciamo quello post
Johnny Freak (
Johnny Freak escluso, inteso), questo sguardo però diventa tragicamente moralistico. E con uno sguardo così debole, hai voglia inceppare alcunché (aldilà dell'entusiasmo del lettore).
Si può anche dire che il miglior Dylan Dog è sì vittima degli eventi per quanto riguarda le meccaniche narrative, ma una vittima piuttosto pugnace, corazzata di caratteristiche legate a quello che in quel momento era il modo di pensare del suo autore. Dylan era un ragazzo di ottima cultura (il "clima" dell'intera testata era parecchio diverso, basta raffrontare gli editoriali di allora con quelli, da strapparsi gli occhi, di oggi), con una visione del mondo e delle posizioni politiche forti e strutturate come quelle di un buon personaggio "letterario", il che comportava anche un'opportuna dose di contraddizioni, narcisismi e immaturità. Paradossalmente la coerenza del personaggio era corroborata anche dalle sue incoerenze, che in alcuni momenti sorprendevano il lettore, dandogli la sensazione di non trovarsi davanti a un oggetto inerte, ma, appunto, a un vero personaggio. E, non essendo un oggetto inerte, era un Dylan che non si lasciava psicanalizzare dal primo venuto senza opporre resistenza; le sue armi per rispondere agli attacchi e alle critiche erano quelle di una persona reale: negazione, sarcasmo, understatement, ironia, faccia di tolla. Tutto questo costituiva una certa solidità, direi meglio
indeformabilità. Il DyD "debole", all'opposto, cade puntualmente in frantumi sotto le mani dello sceneggiatore di turno. Barbato ha portato questo meccanismo —che all'origine era interessante— fino al parossismo; infine perdendosi nel labirinto di una questione privata tra lei e Dylan Dog, così personale da diventare poco interessante per i lettori. Ma in generale tutto il Dylan Dog "deteriore" è vittima di questa estrema deformabilità, che è poi probabilmente il punto debole di qualunque personaggio sceneggiato per troppo tempo, da troppe mani.
Apro una parentesi che mi sta molto a cuore, sul tema del DyD inerme: tra i tanti mostri che il sonno della ragione post Sclaviano ha prodotto, ce n'è uno ubiquitario ormai da tempo: l'intollerabile
Dylan-che-si-schermisce, o
Dylan-spiazzato-in-fatto-di-political-correctness. Si è insinuato tra le pagine delle storie a partire da tempi non sospetti, fino a diventarne un ospite fisso. A scatenarne la manifestazione, lo scocco di una vibrante accusa, mossa da qualche altro personaggio:
—Dylan Dog, tu fai tanto l'antiautoritario femminista, ma ogni mese ti fai una cliente. Ogni volta parli di grande amore, e il mese successivo l'hai già dimenticata. Lo sai che sei un bel fallocrate maschilista?
—Fai tanto il compagno, Dylan Dog, ma poi scendi nel ghetto con quella bella faccia da damerino, riparandoti dietro il tuo tesserino scaduto di Scotland Yard, e vieni a insegnare a noi poveracci cosa è giusto e cosa è sbagliato. Lo sai cosa sei, uomo? Sei un FASCISTA CAUCASICO !
—Dylan Dog, tu hai un aiutante precario più vecchio di te. E non lo paghi!
—Dylan Dog, tu fai tanto il vegetariano, ma poi a Cagliostro dai le scatolette, eh? Ma lo sai come la fanno quella roba?
CI TRITURANO DENTRO I PULCINI VIVI !!1!E lui non sa più cosa dire, poveretto. Annaspa.
A peggiorare le cose, il disegnatore ci mette del suo, enfatizzando. Succede così che, in risposta alle gravi accuse che gli vengono mosse dal moralizzatore di turno, DyD arretri di due passi, solitamente fino al muro più vicino, alzando le mani in segno di resa (se è per esempio in macchina no, ma anche in quel caso almeno una manina la solleva), lo sguardo glauco stuporoso —e piuttosto bolso, in molti casi, ma come si fa a farne una colpa al disegnatore, con del materiale così?— come davanti alla minaccia di una pistola spianata o peggio. Questa tradizione mimico-grafica l'ha inaugurata l'allora magnifico Casertano nel bellissimo
Dopo Mezzanotte, con la reazione alla famosa accusa di omofobia (purtroppo in seguito Casertano, scendendo la china, è diventato cintura nera di
Dylan-sulla-difensiva).
La fase due (tre? boh?), per quello che si è capito, si dichiara nemica del Dylan in frantumi, e parrebbe intenta in una —faticosissima— correzione di tiro. Purtroppo finora sembra indirizzata a dipingere un action hero coatto (nel senso romanesco del termine), come quello che, all'inizio di
Anarchia nel Regno Unito, fa il ganzo a letto con la cliente/fidanzata del numero raccontando sapidi aneddoti professionali. Non esattamente sottile. Devo dire che almeno in questo numero Ratigher cerca di proporre qualcosa di più interessante.
Chiudo la parentesi e torno nei ranghi.
Detto questo: il DyD Ratigheriano è vittima degli eventi? Vittima narrativa, per così dire, sì, ma abbiamo detto che questo è in linea col canone Sclaviano. Vittima passiva no: è per quasi tutto il tempo riottoso, svogliato, recalcitrante; per poi svegliarsi all'improvviso baldanzoso e consapevole nella scena finale. A raccontarlo così somiglia quasi al cowboy senza nome della Trilogia del Dollaro. Tutto bene, quindi? Io direi proprio di no, perché nessuno di questi singoli atteggiamenti risulta coerente con gli altri. Né con l'idea platonica di Dylan Dog a cui apparentemente guardiamo tutti con nostalgia, ma che probabilmente è annegata nel Naviglio intorno al 1992, o giù di lì. Quello di questo numero è un Dylan Dog "strano", sempre fuori registro e una spanna fuori parte. Diciamolo pure: piuttosto mal sceneggiato. Vedremo che ne verrà fuori in seguito. A Ratigher do volentieri una seconda possibilità, e un Dylan Dog disegnato da Bacilieri credo che lo comprerei anche se lo scrivesse Baraldi, sui toni del gelsomino.
Ultime due cose: hai davvero ragione, Dipintendo, sul fatto che Baggi finisca per incrociare in zona Sydney Jordan, soprattutto per quanto riguarda le rigidità semi-fotografiche; ma lì eravamo ad altre sfere di grandiosità e pazzia (conosci le storie di Chalcedon?).
E il paginone
Secondo me è una bella idea, e ben realizzata: sembra di essere improvvisamente davanti a una pagina del
Raw di Spiegelman (o alla pagina marmorizzata del Tristam Shandy). Roba di trent'anni fa (o duecentocinquanta, nel secondo caso), ma su un albo Bonelli fa comunque il suo effetto. Che ci si voglia trovare o meno qualche riferimento metafumettistico/metaeditoriale —io preferisco di no— è un bel modo di usare il mezzo-fumetto.