mi è piaciuta più della storia gemella dello scorso mese. Accatino si conferma uno sceneggiatore solidissimo e graffiante (anche se su questa collana il suo capolavoro resta
).
Sul forum di Comicus c'è chi ha scovato qualche somiglianza di troppo con il romanzo
di Claudel. Non l'ho letto, quindi non posso esprimermi. E comunque, a prescindere dell'estrema difficoltà di tracciare un confine netto fra citazione e scopiazzatura, mi sembra che nell'ultima opera di Accatino la sceneggiatura abbia un peso e un valore decisamente superiori rispetto al soggetto.
Ciao, gente.
Mi avete proprio preso di mira, eh?
Torno a scrivere su questo forum a tre anni dall’analoga polemica per l’albo “La pattuglia”. Sia chiaro, con questo intervento non pretendo di modificare le convinzioni e le false certezze di alcuno, ma ci tenevo che tra i vari post sull’argomento ci fosse anche il mio, che questa storia ho ideato e scritto ormai quasi cinque anni fa. Mi preme dunque fare una precisazione e condividere con voi i meccanismi che hanno portato alla nascita di “Le nebbie di Boisbonnard”.
La precisazione - doverosa - è che non ho mai letto “Le anime grigie” di Philippe Claudel. Confesso di non aver mai sentito nominare né il romanzo né il suo autore prima degli interventi dell’utente grifter qui su Comicus Forum. Non chiamo neanche in causa l’inconscio o robe del genere, perché (a differenza dei film, che vedo a centinaia) non sono un lettore così vorace da non ricordarmi di un romanzo che ho letto.
La Storia di questo mese nasce da due mie grandi passioni: “Twin Peaks” e i “finti” gialli alla Dürrenmatt, dove l’elemento investigativo porta a spasso il lettore per tutta la durata del romanzo solo per poi rivelare nel finale che una soluzione al caso non esiste, oppure che è quella sotto gli occhi di tutti fin dall’inizio del libro. Del resto il finale in cui tutto rimane/torna così com’era, senza un’autentica risoluzione, è un mio vecchio pallino narrativo, presente in molte mie storie, da “La vita rubata” a “L’assassino della porta accanto”, da “La pattuglia” a “Il prezzo dell’onore”. In quanto alla storia del placido paesino che rivela orrori insospettabili, beh, sono un lynchiano doc e un contesto simile – per dire – è al centro anche della mia prossima storia di Dylan Dog “Mare nero”, in uscita prima dell’estate. Che si apre con il ritrovamento in mare del cadavere di una ragazza.
“Le nebbie di Boisbonnard” nasce con l’idea di ibridare la serie di Lynch (e anche un po’ “Velluto blu”) con il polar francese. Cambia il periodo storico, cambia l’ambientazione ma rimane invariata la struttura narrativa.
Come ricorderete, nella serie tv c’è il cadavere di una ragazza che riemerge dalle acque in una livida mattina d’inverno. Uccisa, non si sa da chi. La sua morte sconvolge la piccola e tranquilla cittadina di provincia, anche perché la ragazza era considerata una specie di angelo, amata e benvoluta da tutti. Presto però dietro l’apparente mitezza e semplicità del luogo si rivelano segreti orribili e mai confessati. Nel paesino la società civile è perfettamente rappresentata: ci sono i ricchi e potenti, il ceto medio e i marginali, i savant fou (la Signora del Ceppo/Pascal Parent), che più degli altri hanno qualcosa da rivelare all’investigatore. Il protagonista della storia è l‘unico personaggio pulito e trasparente di tutta la vicenda, un uomo di legge idealista che detta i suoi diari a un piccolo registratore, su cui appunta tutto, dettagli ed emozioni, atmosfere e pensieri. È un uomo dal passato sconosciuto, che (scopriremo solo più avanti) ha visto morire sotto i suoi occhi l’amore della sua vita. Le indagini da subito si concentrano su una delle famiglie più in vista della cittadina, in particolare sul figlio di un maggiore dell’esercito. Poi si spostano su altri personaggi un gran numero di volte, fino ad arrivare a un finale che non è un finale e non risolve nulla o quasi.
Dopo un po’ la serie prende una piega fantastica e soprannaturale che – pur suggestiva – non mi interessava più ai fini di questa storia. E a quel punto ho deciso di innestare una sorta di “what if?”. Che cosa sarebbe successo se l’agente Cooper una volta avvicinatosi al figlio dell’ufficiale fosse stato improvvisamente (e inspiegabilmente) richiamato dai suoi superiori, vedendosi sfilare il caso da sotto il naso? Cosa sarebbe successo se la soluzione ufficiale al caso (che incrimina un poveraccio qualsiasi che ha tanto l’aria del capro espiatorio) non l’avesse convinto per nulla puzzandogli di depistaggio? E se avesse passato il resto della carriera con il rimorso di non essere stato in grado di incastrare quello che lui pensa sia il vero colpevole del delitto di Twin Peaks (proprio il figlio del maggiore)? E cosa sarebbe successo se anche l’idealismo dell’agente Cooper avesse nascosto in realtà misteri e orrori? Cosa sarebbe successo se la reazione di Cooper alla morte della donna della sua vita (sepolta nel suo passato) fosse stata in realtà una vendetta mai rivelata, che lo ha risucchiato dalla parte del male, perdendolo (e fondendo così in un unico personaggio la luce assoluta di Dale Cooper e l’oscurità totale del crudele Windom Earle, dando vita a un personaggio ibrido pieno di chiaroscuri)? E infine cosa sarebbe successo se questa sete di verità che ha roso Cooper fino alla pensione (spingendolo a ritornare ossessivamente sui propri diari, continuando a registrarne fino al presente) venisse in realtà frustrata dallo scoprire in extremis che la soluzione del caso Twin Peaks (pur risolto in maniera rocambolesca e non procedurale) era clamorosamente corretta?
Spostai dunque il setting al periodo classico del polar francese (la Francia degli anni Trenta, come da abc del genere), e scelsi come ambiente una cittadina della Loira dall’evocativo nome di Villeperdue. Nella storia è ricostruita minuziosamente, via per via, compreso il negozio di fiori, l’abitazione di Pascal (oggi la biblioteca comunale) e il castello di Boisbonnard che si trova nei dintorni, immaginato inevitabilmente come la dimora del potente. Se vi fate un giro su Internet trovate tutto. Per motivi evidenti l’FBI diventò la polizia e il registratore un diario vergato a mano, con pennino e inchiostro. E poi nebbie, desolazione esistenziale, innocenti (o presunti tali) giustiziati, eroi perduti, intoccabili da tirare giù dalle torri d’avorio. Tutti elementi in misura differente presenti nei grandi classici del cinema noir di quegli anni. Se dunque la mia storia presenta analogie e somiglianze con quella di Claudel (e se lo dice l’utente in questione che ha letto il libro non ho motivo di dubitarne), probabilmente è perché entrambi abbiamo pescato dal medesimo immaginario e dai suoi cliché, narrativi prima ancora che estetici.
Ancora una cosa. Per la caratterizzazione del personaggio principale scelsi il mio bisnonno Antonio (soprannominato proprio “il questurino”, cioè il poliziotto). Questo è uno stralcio della scheda del personaggio che redassi nel 2011 e che allegai alla sceneggiatura.
Quella del mio bisnonno fu una storia pazzesca. Agli albori del Novecento – rincasando una sera – trovò la giovane moglie Giuseppina morta in strada davanti a casa, uccisa da qualcuno che non venne mai individuato e che probabilmente aveva cercato di violentarla. La vita del mio bisnonno si fermò lì, in quella sera di aprile. Trascorse il resto dei suoi anni a piangere la giovane moglie, andando a trovarla ogni giorno al cimitero, parlando con la sua fotografia. Il bisnonno Antonio si disinteressò completamente dell’esito delle (rudimentali) indagini dell’epoca, dicendosi convinto che il colpevole fosse uno dei vari anonimi sbandati di Torino. Sosteneva che facilmente l’assassino sarebbe stato arrestato a breve per qualche altro reato e che probabilmente si trovava (o si sarebbe trovato presto) nuovamente in carcere per altri motivi. Ripeteva sempre “A vantaria che ad chiel a s’intereseisa la giüstisia divina. Se no a và anca bin cula üman-a” (“Bisognerebbe che di lui si occupasse la giustizia divina. Se no va anche bene quella umana”). Frase sibillina che nessuno in famiglia ha mai preferito approfondire. La storia del mio bisnonno fin da bambino mi ha sempre affascinato e inquietato e da sempre cercavo il modo di poterla impiegare da un punto di vista narrativo. Quest’albo mi è sembrato la prima, ottima occasione per farlo.
Questo è quanto.
Un saluto a tutti.
Fabrizio Accatino