Come giudicare quest'albo? Se lo si paragona alle due doppie storiche di Sclavi e M&G, dalle quali riprende qualche spunto (in particolare da "I segreti di Ramblyn", con Dylan impegnato a dipanare le trame giallo-orrifiche che coinvolgono e legano gli abitanti di una piccola città), ne uscirebbe con una dignitosa ma inequivocabile sconfitta. Se invece -cosa per me più interessante, e forse anche più sensata- lo si valuta confrontandolo con le altre (poche) storie scritte da Manfredi per Dylan Dog, ne viene fuori benissimo: anzi, mi spingerei a definirla tranquillamente la sua prova più riuscita su queste pagine.
Qua e là, certo, riaffiorano molti dei difetti presenti nelle sue storie: non tanto la verbosità (è vero che si parla molto, a tratti, ma c'è anche molto da spiegare), quanto una certa letterarietà che ogni tanto contamina il tono dei dialoghi e dei pensieri; la difficoltà nel trovare i tempi e le battute giuste per Groucho (che infatti viene lasciato a casa -scelta che si rivela doppiamente felice, in considerazione del finale); un epilogo che non riesce a lasciare del tutto soddisfatti, vuoi perché il "ritorno alla normalità" delle ultime due tavole sembra troppo affrettato, vuoi perché a ben vedere l'improvvisa e tempestiva presa di coscienza (e di coraggio) della popolazione cittadina non è molto originale, e soprattutto non è pienamente giustificata da quanto si è letto prima: non pare che il sindaco, il maestro (due personaggi che peraltro si vedono pochissimo, e con i quali Dylan non parla neppure), e il capo della polizia (che poi: un gallese che fa di cognome Wales?
) esercitino chissà quale potere tirannico sulla città. Più semplice, mi pare, leggervi una manifestazione spontanea dello spirito antiautoritario che Manfredi ha voluto inserire in quasi tutte le sue storie dylaniane.
Ma dal punto di vista visivo (e, visto che parliamo di un fumetto, non è certo un aspetto secondario) è, insieme a "La morte rossa" (non a caso...), la sua storia più affascinante, quella in cui il potenziale orrifico/visionario del soggetto viene sfruttato al meglio: un maestoso Roi ha ottimo gioco nel restituire l'atmosfera soffocante e malsana di Llandlow, le ombre e la pioggia e gli edifici cadenti (con tanto di chiesa diroccata) tra le cui vecchie pietre si nascondono segreti remoti e inconfessabili -e Manfredi ha l'intelligenza e l'umiltà di lasciargli lo spazio che merita, riservandogli diverse vignette completamente mute (a differenza, ad esempio, di quanto accadeva in "I giorni dell'incubo"): davvero potente, in particolare, la visione/allucinazione di Dylan sui versi del suo omonimo Thomas.
E se la ragazza del mese -anzi, del bimestre- non è particolarmente memorabile (anche perché, dopo l'arrivo, Dylan e la quasi anagrammatica Lydia interagiscono pochissimo), lo sceneggiatore riesce a caratterizzare bene diversi personaggi, giustificando pienamente lo spazio concessogli: il prete Paul, lo stesso Wales, Martha Wing, e Llewelyn, i cui atteggiamenti sono così disgustosi da annullare felicemente tutto il potenziale pietistico collegato alla sua infermità.
Giusto, e (visto l'autore) assai logico, che siano due "marginali" come lui e Groucho (che anche stavolta, come in "La porta dell'Inferno", ha un'ottima intuizione investigativa) i veri protagonisti del finale, capace di regalare almeno un'altra immagine di grande effetto con Llewelyn che infila un coltello nella ferita sul polso di Dylan e ne cava fuori il ragno infilzato.