Io non credo esistano un "prima" e un "dopo" chiaramente identificabili, nella storia editoriale di Dylan Dog. Che "a un certo punto" sia accaduto "qualcosa" è sicuro, ma l'identificazione di quel punto è materia estremamente soggettiva. E anche la definizione di quel "qualcosa" è sfuggente, certo: ma quando, come è capitato a me, accade di leggere consecutivamente due storie dello stesso autore, benché pubblicate a distanza di sette anni e mezzo, è impossibile non notare l'entità delle differenze che hanno coinvolto la testata e il personaggio. Provate a (ri)leggere l'ultima apparizione di Mignacco sulla serie regolare, "Il paese delle ombre colorate" (#107), che pure non è certo un capolavoro, e questo albo, e vi accorgerete di quanto si sia perso in termini di ritmo, vivacità, vitalità, capacità di intrattenimento.
Forse il ritorno di Mignacco, dopo un periodo così lungo, vale come ammissione, da parte dei curatori della serie, della difficoltà di trovare nuovi autori in grado di scrivere Dylan Dog. Ma non si capisce perché sia stato richiamato uno sceneggiatore che non è quasi mai parso particolarmente a suo agio o ispirato sulla testata, così come non si capisce perché questa relazione tra persone chiaramente incompatibili si sia trascinata stancamente fino a pochi anni fa, visto che le sue storie continueranno ad apparire una volta ogni uno-due anni (una frequenza così dilatata da rendere inevitabile il sospetto che siano state usate come tappabuchi, come era già successo per "Storia di un povero diavolo").
Gli anni non hanno certo avvicinato lo sceneggiatore allo spirito di Dylan Dog, tanto che (forse per la frequentazione di Nick Raider) ci ritroviamo un giallo che di horror ha poco e nulla. E non hanno certo attenuato i difetti mostrati in più occasioni su queste pagine: dialoghi spesso ingessati e fiacchi, soluzioni troppo semplici e poco plausibili (si veda Dylan Dog che riesce a disarmare Carson, alle pp. 88-89, benché essi si trovino inizialmente ai lati opposti del Maggiolone di Dylan: come diavolo ha fatto ad avvicinarsi così tanto da colpirlo, senza che quello gli sparasse?), insufficiente caratterizzazione di molti personaggi (alla fine non si capisce neppure
e difficoltà nel gestire o comunque far comprendere al meglio la successione degli eventi nel tempo (dopo aver conosciuto il bambino e accettato il caso, Dylan insieme a Sheila trascorre "un mucchio di tempo" con Timothy, un periodo di diversi giorni che viene condensato nelle vignette di pagina 25; però poi, a pagina 26, si capisce che quella è la prima volta in cui Dylan lo riaccompagna a casa...).
Non male invece il ritorno di Dall'Agnol, il cui stile non mi sembra così radicalmente distante dalle sue ultimissime prove dylaniane (penso a "Falce di Luna" e "Il confine").