Un trauma infantile rimosso che improvvisamente riaffiora alla coscienza del protagonista: "Da una lontana galassia" condivide lo spunto iniziale con il precedente albo scritto da Mignacco, "I ricordi sepolti" [#249]. Ma lì almeno Roi regalava qualche buona parte atmosferica, mentre qui non c'è neppure quello -forse perché il suo tratto non è il più adeguato alla fantascienza, o forse perché alieni & simili su Dylan Dog dovrebbero essere lasciati solo alla penna di Sclavi.
Che noia, che prolissità: va bene che il protagonista è uno scrittore, ma si inizia da subito a parlare troppo -a Luc si aggiunge pure il controcanto "realista" di Mimi (tra l'altro: perché è venuta anche lei?)-, e fino a pagina 37, cioè per tutto il primo terzo dell'albo, non si fa praticamente altro. E poi ci sono troppi personaggi, quasi tutti inutili, dalla stessa Mimi alla zia Geena, lo psicologo (come nel #249), o il domestico Seamus, al centro di una falsa pista buttata lì e poi revocata nel giro di due vignette a vicenda praticamente conclusa (siamo a pagina 84). Non il primo svarione di sceneggiatura, e neppure l'ultimo: perché
O è un errore, o un ammiccamento al lettore, nel timore che questi abbia (comprensibilmente) dimenticato buona parte di quanto è accaduto prima.
E per finire -o meglio, per cominciare- è proprio l'evento che mette in moto la vicenda a non avere alcun senso, ai miei occhi (non parlo della "riattivazione vocale" del trauma, che per me come spiegazione può andare): Luc torna in paese dopo la chiamata del dottor Pears, il quale gli dice che la zia lo vorrebbe al suo fianco, ma la prima cosa che fa la zia (pag. 36) è smentirlo, chiedendo al nipote cosa è venuto a fare. Un Dylan un po' meno frastornato avrebbe iniziato subito a capire che dietro questa contraddizione c'era qualcosa di strano -doppiamente strano, anzi: perché a quel punto vuol dire che è lo stesso dottor Pears a volere il ritorno di Luc... ma a quale scopo?