L'incipit, lo noto solo oggi, è praticamente uguale a quello de "Il buio": esterno notte, un villino, un padre e una figlia, il brutale omicidio del primo sotto gli occhi della seconda. In questa loro seconda collaborazione, mi pare che sia Chiaverotti che Dall'Agnol perfezionino il loro stile: il secondo potrebbe anche essere al suo meglio, il primo riesce ad arrivare alla fine senza sbandare (anche se la sua ossessione per le filastrocche simil-sclaviane mi inizia già a risultare stucchevole), e in fin dei conti chiedendoci relativamente poco in termini di sospensione dell'incredulità, a parte il "travestimento" del killer, che d'altronde è una manifestazione di intelligenza non meno implausibile del fatto che un professore universitario si dedichi a ricerche alchemiche -per quanto mi riguarda, entrambe cose che sono dispostissimo ad accettare, nel contesto.
Quello che, oggi, sono meno disposto ad accettare, è ovviamente la tirata finale di Dylan Dog, sia dal punto di vista narrativo che da quello (ideo)logico. Nel primo caso, perché il j'accuse di Dylan è estremamente didascalico e retorico, e credo che avrebbe funzionato di più una sua semplice reazione stupita/disgustata, dalla quale avremmo comunque potuto comprendere benissimo la sua posizione sull'argomento. Nel secondo caso, perché il tema molto complesso della sperimentazione scientifica sugli animali viene ridotto al caso limite della vivisezione, a sua volta presentata nella sua forma più cruenta possibile -e non so neppure quanto realistica, perché "operare senza anestesia per verificare la resistenza del soggetto al dolore" è sì medicina, ma nella sua accezione nazista.
_________________ Non giudicare gli uomini sulla base delle loro opinioni, ma da ciò che le opinioni possono fare di loro. (Georg Christoph Lichtenberg)
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