L'ottavo Gigante è un curioso e azzardato esperimento editoriale, che affianca quattro storie medio-brevi di Dylan Dog a una lunga di Nick Raider.
Come detto già da tutti, "La banda dello zodiaco" è un addio (quello di Manfredi alla serie) decisamente fiacco: un giallo del tutto privo di elementi soprannaturali, una storia ordinaria e incolore, priva di guizzi, e non aiutata dai disegni di Rinaldi, competenti ma per nulla evocativi (e in alcuni punti chiaramente affrettati). Anche stavolta, come spesso nelle storie dell'autore, è Bloch (che ogni tanto assomiglia a Michel Piccoli) a chiedere l'aiuto di Dylan, e anche stavolta (come in "La governante") il nostro salva la ragazza all'ultimo minuto. Oltre all'errore di collocazione temporale segnalato da Altair, solleva dei dubbi anche la stessa presenza di uno squat a Soho -cioè, in sé ci può anche stare: il problema è che Groucho aveva appena finito di lamentarsi della gentrificazione della zona...
Il resto va meglio, ma comunque la fiammella dell'ispirazione arde a intermittenza. Per quanto riguarda le storie "medie" (sarebbe anche curioso sapere se siano nate così, oppure se siano state espanse, o viceversa accorciate, rispetto alla loro lunghezza originaria), mi tocca bocciare anche stavolta Gonano, che nelle sue poche prove dylaniane non mi ha mai convinto. Almeno questa volta non mette in mezzo ninfomanie e violenze sessuali (c'è "solo" un caso di violenza coniugale, peraltro confinante con l'autosuggestione), ma neanche a questo giro gli riesce di trovare il tono giusto, tra suggestioni gotiche e battibecchi che si vorrebbero brillanti e spiritosi, ma che ammosciano ogni tentativo di costruire un po' di tensione vera (il gotico è uno dei generi più refrattari all'ironia). Senza contare che è impossibile immaginare quali contorsioni logiche e lessicali siano necessarie perché Dylan rimanga bellamente all'oscuro del rapporto tra i suoi due clienti (tanto per dirne una: una persona paranoica come Claire, convinta che il marito stia cercando di ucciderla E che sia al corrente della sua intenzione di rivolgersi a Dylan, non sarebbe certo rimasta indifferente di fronte alla coincidenza di Dylan in partenza proprio per il Galles, ossia il luogo da cui lei proviene; e, per dirne un'altra, è strano che Hendricks non indossi mai la fede, o che per tutto il castello non ci sia neppure una foto della moglie).
Nelle sue due storie, Sclavi decide di mirare al cuore (anche degli animalisti), e fa centro: magari in "Cuori rubati" la butta un po' troppo sul patetico (però c'è Riboldi, ahinoi al suo ultimo lavoro dylaniano), ma "Il gatto nero" è una meraviglia malinconica di quelle da stropicciarsi gli occhi -sia per il lavoro di Stano (migliore qui che in "Il pozzo dei dannati", per quanto mi riguarda), sia perché quelle lacrimucce bisognerà pure toglierle, in qualche modo... Come nota(va) giustamente Wolkoff, i temi del rimpianto e dell'amore perduto/sfuggito riportano inevitabilmente a "Margherite" -anche se qui Sclavi si (e ci) concede perfino un briciolo di speranza sul finale, cosa per la quale (essendomi immedesimato fin troppo nell'avvocato Palmer, e non solo in quanto amante dei gatti) mi sento di ringraziarlo.
Applausi conclusivi per Ruju, che continua ad aggiornare il suo score quasi perfetto su questa collana con "L'altro", che a ben vedere fa in sedici pagine quello che l'osannato Accatino di "La vita rubata" farà in novantaquattro, e forse perfino meglio -nella misura in cui la brevità lo aiuta sia a mantenere la tensione, sia ad aggirare quasi tutte le questioni legate alla plausibilità della vicenda (nel caso di Accatino, ad esempio, più passa il tempo e più diventa difficile capire come mai nessuno si accorga che Dylan -stazzonato, manesco, borioso, strafottente- è decisamente... come dire, NON Dylan).
Nel complesso, però, credo sia il più debole tra i primi otto Giganti: e magari le due cose non sono collegate (o forse c'entra anche la nascita del Maxi, che poteva essere usato come rifugio/parcheggio per le storie di lunghezza canonica ma ritenute per un motivo o per l'altro non adatte alla serie regolare), ma il cambiamento della formula, che sarebbe avvenuto l'anno seguente con il passaggio a un'unica storia di formato extralarge, appare comunque una buona idea (anche se poi l'opportunità non sarebbe stata sempre sfruttata al meglio -ma questo è un altro discorso). Tuttavia, così facendo, è venuto a mancare l'unico sbocco rimasto per le storie brevi (che nei primi anni trovavano ospitalità anche nelle pagine dell'Almanacco): un errore, a mio avviso, considerando la loro qualità media, non di rado -anzi, dal quarto volume in poi direi quasi sempre- superiore a quella delle storie lunghe.