SPOILER SPOILER SPOILER
Premetto che in una ipotetica scala di 10 gradini i disegni di Stano sono una "Stairway to heaven". Adesso mi si dirà che la storia è di Ruju e quindi sto qui a fare il demagogo intessendone le lodi...però penso di poter affermare (magari mi ricrederò) che questi sono i disegni più belli che abbia mai visto su Dylan Dog. Brindisi, Roi, Mari e alcuni altri...sono bravissimi, dei Maestri con la "M" maiuscola, ma non è ancora stato creato un termine per classificare Stano. I suoi disegni sono sempre così pertinenti e appropriati, riescono a coniugare realismo e iconicità come nessun altro (l'unico che gli si avvicina per me è Dall'Agnol e in un certo senso, partendo da presupposti diversi, Casertano). Adesso passo pure per pazzo, ma ammetto che soprattutto nella passeggiata londinese iniziale, ogni volta che veniva ritratto Lisenko mi veniva da piangere; oppure nella scena della bufera di neve, dove SENTIVO il rumore del vento nelle orecchie. E' assurdo, ma è così.
Passando alla storia devo dare in parte ragione a rimatt. La tecnica narrativa è molto strana. "Questo non è Dylan Dog" secondo me non è esattemente sbagliato come non è esattamente vero. Molto spesso ultimamente (con le dovute eccezioni) si sono lette storie in cui Dyd sostanzialmente non agisce, non fa nulla se non trovare l'indizio risolutivo, o sparare il colpo di pistola al momento giusto, per poi ricadere nell'anonimato. E' una comparsa. Qui invece le cose stanno diversamente: in questa storia Dyd non è protagonista (come vorrebbe la struttura classica alla Dylan Dog), ma co-protagonista, divide la scena democraticamente con gli altri personaggi senza accentrare l'attenzione su di sè. Secondo me si può dividere la storia in tre sezioni: una prima in cui le luci sono puntate su Lisenko; nella seconda la parola è data a Berchov, che in una sorta di lungo piano sequenza fa da tramite fra la "premessa" londinese e lo "sviluppo" alla centrale; nella terza tocca a Taras e al suo dramma; inoltre Sonja, con la sua presenza intermittente dall'inizio alla fine della storia, costituisce il ponte trasversale fra le tre parti (nella parte di Lisenko è oggetto di un'analessi, distante nel tempo e nello spazio dallo svolgimento dell'azione; nella parte di Berchov è distante nello spazio, ma non nel tempo: infatti il racconto di Berchov è intervallato da apparizioni della ragazza alla centrale, con Taras; nell'ultima parte Sonja finalmente non è più distante né nel tempo né nello spazio e compartecipa delle azioni di tutti gli altri personaggi). Forse Sonja è il personaggio per certi versi meno convincente, le cui parole risultano poco significative, ma per converso l'eloquenza dei suoi silenzi e dei suoi intendimenti la riscatta dal proprio "svantaggio" narrativo.
Ecco, come dicevo pocanzi uno stile come questo non lo avevo ancora visto su Dylan Dog e in questa storia credo che Ruju abbia portato sulla testata l'esperienza di Demian e quel determinato tipo di forma. Il problema poi non è se questo "è o non è Dylan Dog", ma se anche questo "può essere (un) Dylan Dog" (perché è assodato che ogni autore sostanzialmente ha una propria concezione del personaggio e di come agisce, ma in questo caso credo entri in ballo un'innovazione ben più sostanziale: qui Ruju non opera sugli elementi della testata, con più o meno horror, più o meno cliente mensile, più o meno donna da sedurre e abbandonare, più o meno clichè che può essere Groucho/il tesserino/il giuda ballerino/etc.; qui Ruju, preservando in parte più che sufficiente gli elementi appena elencati, agisce addirittura sulle linee della griglia narrativa della testata, deformandole e distorcendole per creare qualcosa di VERAMENTE diverso rispetto a ciò che si è letto di recente. Quanto sia legittima questa operazione è opinabile e anch'io sono effettivamente perplesso a riguardo, ma non posso non esserne comunque affascinato. Dylan Dog è stato davvero (de)portato al confino. Che poi ci resti, faccia ritorno o varchi la frontiera è da vedere.
Per il resto ho trovato molte somiglianze con altre prove del Ruju di Dylan Dog. La trasferta estera (che non mi è affatto dispiaciuta), l'aggancio al reale con dati concreti (l'esplicazione della catastrofe di Chernobyl, i procedimenti per ottenere l'energia nucleare, il riferimento alla caduta del muro di Berlino), la tanto bacchettata "osteomorfosi" (che c'è, è innegabile, ma a parziale discolpa dell'autore devo dire che in questo caso essa non rappresenta il fulcro della vicenda come in "Nightmare Tour" o "Tutti gli amori di Sally", ma solo un piccolo stratagemma, che ho trovato anche garbato, per trainare la vicenda verso il finale), il tema del "passaggio di testimone" (quello de "I mostri di Sullivan", ma in questo caso non concretizzatosi grazie all'intervento finale di Dylan)...
Ma quello che mi piace più di tutti e che riconosco come un vero merito all'autore è il tema della "te(cn)ocrazia", quello delle "fortezze dell'apocalisse" (per citare l'autore): in "Macchie Solari" il ripetitore di Islington era un "altare", un altare sacrificale, mentre in questo albo la centrale di Mykoniv è una "cattedrale nucleare". Queste sono le "fortezze dell'apocalisse", i nuovi templi che l'uomo ha eretto agli dei della modernità e del progresso tecnico e scientifico. Gli uomini traggono beneficio dalla propria adorazione, ma il tributo di sangue da pagare è sempre esponenzialmente più alto.
Inoltre come già in "Macchie solari" tornano gli zombi, ma in realtà in quella storia si trattava di "rinati", come qui si tratta di "schiavi". Torna anche il tema caro a Ruju dei vampiri, ma anche questa volta in modo non banale: ad esempio nella duplice "Notti di caccia/Il marchio del vampiro", Jargo, il vampiro maestro, era diventato tale perché il suo odio e la sua volontà di ritornare erano stati talmente forti da averlo reso ciò che era. Qui l'Upyr è una figura ibrida, un cavaliere suicida del diciassettesimo secolo la cui "signoria feudale" si estende sull'Ucraina del nord ed è accettata nè più nè meno di una sgradevole ingerenza tributaria: non è una figura nè negativa nè positiva, non è il classico mostro cattivo redento o buono frainteso che per questo arriva a compiere il male; è quello che è, uno dei tanti cui l'uomo ha fatto terra bruciata intorno dovendone pagare le conseguenze. Il dato soprannaturale non è essenziale, è un pretesto che innesca il meccanismo della storia per arrivare a parlare d'altro.
Ovvio che le ingenuità non manchino (le frasi troppo balbettate o dubitanti di Sonja; le eccessive reticenze calcolate di Berchov prima del racconto; Berchov che a pagina 53 svela il nome dell'upyr dicendo di avere fatto ricerche sui "registri dell'epoca", senza che in precedenza sia stato fatto cenno precisamente all'epoca in questione...), tuttavia non credo che queste cose inficino il tono medio della storia.
Due ultime notazioni su particolari che mi sono piaciuti veramente molto: 1) la digressione sull'infanzia di Sonja e la ricerca di protezione nei confronti di Taras; 2) la scena finale del secondo suicidio di Taras con l'apparizione della piccola Sonja fra le radiazioni (quest'ultimo espediente volendo è anche "facile", ma sempre d'impatto).
Inoltre il personaggio di Dylan, benché in vesti molto inusuali, mi è piaciuto parecchio nelle "scelte sbagliate" (l'apertura del sarcofago) o meno (la provetta buttata fra la neve) che viene chiamato a prendere.
Solo un'ultimissima cosa: si è parlato di assenza di ironia, ma vorrei sfidare a introdurre qualcosa anche di solo vagamente ironico in una cornice intessuta dall'inizio alla fine di catastrofi nucleari, paesini dimenticati da dio dell'Europa dell'est e vessati da un essere soprannaturale, stermini di vario tipo, scomode verità e disegni di Angelo Stano! (ovviamente adesso l'ironico lo faccio io, ma solo per dire che l'ironia, come molte altre cose in Dylan Dog, non è un valore assoluto, ma a seconda dell'occasione può risultare un valore aggiunto o una tara; in questo caso penso che la storia vada benissimo così, senza che si senta la mancanza di un'ironia introdotta a forza in un contesto poco predisposto per questo elemento).
Scelta coerente con le premesse, ma sempre dolorosa, l'assenza di Groucho.
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Dagli occhi vermigli grondano oramai
lacrime sanguigne, per tetri calamai.
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