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Detto, fatto –
non a questa velocità, però Right, non credevo di tornarci su questa storia, a parte che per le repliche ad alcuni commenti… ma dopo la rilettura domenicale e la fermentatura di certi spunti… riprendo quanto lasciato in sospeso – per cattiva condotta – e risbucatomi nella cucuzza.
Per gli amanti della coerenza si può sempre confrontare con la prima parte:
https://www.cravenroad7.it/forum/viewtopic.php?f=8&t=8933&start=150Second leg ed
omake random della recensione, a raffica, quindi.
OVVIAMENTE e’ TUTTO UN MEGA
SPOILER ˜ ˜ SPOILER ˜ ˜ SPOILER ˜ ˜Neanche a me sono piaciuti i nomi “omaggianti” delle basi navi spaziali
.
Vabbene
Mick Jagger e la
Thatcher, ma aspettarsi qualcosa di meglio di
Beckham in oltre due millenni di storia britannica mi pare quantomeno legittimo. Se gli dedicano un vicolo dietro la casa natale è pure troppo.
Per la moglie un cavalcavia sarà sufficiente?
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Stavolta – a differenza del titolo dello
Speciale made in GDG per cui c’è stato un certo accapigliamento – sono d’accordo con l’utente
Bentler sull’uso errato di un termine, a livello di costrutti e significato.
Mi riferisco a:
Bentler ha scritto:
p. 19, didascalia 1: "Implementarono questa personalità in corpi sintetici creando delle repliche ecc. ecc.". Non si implementa+[oggetto]+in: siamo ai limiti del solecismo sintattico: un'occhiatina al dizionario, per vedere il reale significato del verbo 'implementare', di là da come lo si usa allegramente in rete, aiuterebbe)
Infatti. L’errore presente anche a pag 13.ii deriva, forse, dall’assunzione errata del verbo direttamente dall’ uso inglesoide
.
Nel dylan-idioma
to implement significa anche “
apporre, applicare”.
Mentre da noi vale solo come “
migliorare, perfezionare, adempiere”, cosa che mal si sposa con i costrutti usati per le vignette in questione, e con l’italiano.
O forse si sono confusi con “impiantare” ?
Impl-elementare Watson, o no
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Sul discorso di
Manda:
MandarinoFish ha scritto:
Ma c'è una cosa che non va, e pure grossa, e mi rendo conto che quello che sto dicendo è un discorso chiaramente soggettivo:
Non mi ha emozionato.
Dovevo sentire il freddo dello spazio profondo, la paura del vuoto e dell'ignoto. Volevo perdermi in questo buio infinito, ma non ci sono riuscito.
Come è stato già accennato, in un certo senso, per atmosfera questa più che una storia “dello spazio/spaziale” è una storia “di spazi” angusti e reversibili – nel finale, quando salto tutto – e soprattutto di navigazione, senza tempo.
Per questo può prescindere dall’infinito bujo cosmico come co-protagonista
.
Anche Dylan allude alla teoria del vascello ed alla somiglianza/affinità della nave cargo con uno di quei galeoni che trasportavano coloni, schiavi e soldati in epoca moderna (pp. 51-52 e anche 32).
E’ la nave-prigione (di molte cose) che dà il senso dell’ambientazione. Non tanto il cosmo che passa in secondo piano, come quello spazio profondo, ignoto e silenzioso… che in altri contesti di fantascienza la fa invece da padrone. Forse mettere insieme entrambe le cose in una sola storia era troppo…
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Una cosa che mi era particolarmente piaciuta nel complesso della storia e che mi è sfuggita dalla precedente recensione, è una certa apertura più positiva, tra le righe, verso il ruolo dei cloni tanto demonizzati – anche da noi
– nella chiusura della loro esistenza.
Mutando i loro rigidi assiomi, grazie all’interazione-contaminazione col Dylan “puro/originale ”#5.
Parlo di quel senso di ricongiunzione nell’essere Ernest,
ehmm… Dylan come un tutt’
unicum (p.58) di cui sembrano appropriarsi coscientemente (p. 58), di una certa l’apertura al sacrificio (pp. 61-64), della capacità di chiamarsi per nome e non più solo per sigle, con una sfumatura un po’ più umana fino alla svolta (addirittura) ironica di un automa come #4 (p.68-69)
.
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*****Adesso, visto che
il gioco delle metafore è stato messo in tavola una partitella – sempre e solo per gioco, of course- me la farei pure io.
Prendo i dadi e le pedine intanto…
E poi passo ad aggiungere una mia (oziosissima… ) rivisitazione/estensione personale del discorso meta-testuale applicato a dei loschi figuri che si aggirano nella rete.
Vale a dire NOI. In quanto lettori critici e forumistizzanti.
Mespiego mejo.
Allargando il contesto del meta-fumetto alle varie figure che imperversano in questo albo, mi è venuto più di un sospetto (e diletto, costruttivo) che Recchioni abbia traslato uno dei dogmi sclaviani appositamente per questa storia.
Dopo “
I mostri siamo noi” arrivano “
Gli spettri siete voi”… (e/o quello che vi ronza in testa)…
… con un po’ di autocritica, per l’ iper-produzione di considerazioni su considerazioni sul valore di Dylan rispetto al suo passato, la paura per il futuro – nei suoi spazi profondi - il suo spessore in perdita, i nostalgismi bagnati di rimpianti, i fondamentalismi iperortodossi, e le pretese insensate verso quello-che-non-potrà-mai-più-essere
.
Insomma,
forse siamo noi stessi ad esser (prigionieri di) quelli spettri che s’aggirano per la nave Thatcher… ed è il anche il nostro discorso in quanto “memoria storica” ad infestare di terrori congelanti gli sviluppi di quello che è soltanto in fase embrionale, ad oggi…
Non per nulla l’albo ripete in continuazione il discorso sull’assuefazione agli schematismi nell’appropriazione/costruzione di un personaggio, il protagonista.
E’ sufficiente una memoria “di ricostruzione” programmatica ( e falsa, attraverso un software, v. discorso di pagina 15.i) per ricreare il vero Dylan? Non siamo sempre bisognosi di simulazioni in replica/forzose su misura della sua personalità d’archivio? Ovvero quello che si è visto negli ultimi sei-sette anni, a josa (p. 18), da rifilare alla falange di lettori, coscritti/arruolati contro la loro volontà (v. pag 51) in quanto mano d’opera sganciante per tener su l’impero
.
Ribattendo di metafora (con un top-spin):
Se i burocrati dell’ Impero di Albione (la SBE), al servizio della regina Victoria XXIIIa (Beckham? sarà un’allegoria per le victorie del Milan, beninteso), si trovano davanti a dei fantasmi neanche tanto lontani dai nostri fantasmi mentali, o sugli echi del web… allora l’anello di Hoag si chiude
.
Il Cargo Thatcher è senza equipaggio, (la testata DYD, per esteso), infestato da spettri…che sfuggono al controllo/comprensione dell’Impero (p. 15.iii; 18.i) … voci elettroniche che disturbavano le comunicazioni (p.16.ii), malevole attività para-normali (p. 28.v), attirate dai sentimenti negativi (p. 53) che gettano nello scompiglio i prigionieri del cargo (i lettori, in senso lato).
C’è da aggiungere anche piuttosto incacchiati, questi spettri scappati dal nostro inferno personale/comunicativo (p. 82), perché come presagisce #3 (p.50.ii) trasudano rabbia ed odiano tutto, a partire dai cloni di Dylan, nella cui mente-copione sono capaci di penetrare facilmente (p.61.iii)
E tra i nostri spettri tormentoni-ci da vascello veleggiano il ben noto Bloch brontolante e la Bree consolatoria, che anche sul cargo non si fanno mancare.
Chiudo qui questo giochetto di meta-narrazioni prima di degenerare verso altre dimensioni fuori scala, e fuori focus.
Come per ogni gioco l’importante non è vincere, né convincere, ma tornare a casa col pallone. Sano
.
*****Parliamo – noi chi? rispondete, Houston! – dell’aspetto grafico.
Copertina bellissima, non aggiungo altro. Peccato solo che su tutto quel nero rimangano i segni delle mie ditacce. Da prendere coi guanti? E le pinze?
Frontespizio quasi insignificante, per la realizzazione.
Il concept è carino, ma la fattura di terza fascia.
Forse in b/n recupera qualcosa, ma dopo oltre 20 anni di quel capolavoro precedente se si voleva davvero cambiare – ed era ora – lo si doveva fare con qualcosa di più elaborato e meno al risparmio
.
Mari a colori mi ha davvero stupito
Non mi aspettavo tanto spettacolo.
Ritorna al suo vecchio amore per la fantascienza, e specialmente nello studio degli interni si vede che è una bellezza. Ovviamente non è più il Mari superbo di
Vampyrus o cose simili ma, mi ripeto, sarebbe ora di scacciare tutti questi fantasmi di rimpianti.
Cepensa Dylan? O Bill Murray?
Guadagna certi effetti di luce non possibili senza colori (p. 8.i, 40.iii e 58.i), anche solo per le torce e le ombrature dei primi piani.
Temevo per la carta opaca, a differenza di quella lucida del CF, ma qui le cose rimangono su un livello di qualità molto alta, e poi ultima sezione più “inglese” se ne avvantaggia
.
Un po’ ripetitive le scelte cromatiche negli interni, specie del cargo (pp.22-64), ma quando subentra l’incubo “i rossi” si caricano a dismisura e la
palette s’infradicia d’incubo. (pp. 65-67, 72-85)
Non mi sono piaciuti gli scafandri a tuttotondo e sbrindellati di pag 17, i soliti mostri tentacolari alla Mari un po’ da rivedere – a parte l’exploit con Groucho, pp. 78-79 – e sospetto che tra 74.iii e 75.ii ci sia qualche errore di montaggio/disposizione nella sequenza delle vignette.
Buono lo scotennamento di #1 (p.45), lo svisceramento (posticcio, è un semivegetale in fondo) di #2, gli zombi demoniaci dei cloni, ricuciti, sbavanti, fasciati di carnazza perversa (pp. 89-92), l’abisso senza scampo dagli inferni (p. 93)….
…
e soprattutto il magistrale il Grouchazzo dentiaguzzi formato Regina Madre di
Alien2, con tutte quelle malvagie appendici pullulanti e quel rosseggiare di insana truculeeeeeenza
.
Dopo la prima chiavata – intesa come botta di chiave albionicissima p. 73 – Mari lo ritrae di una cattiveria davvero riuscita, con quelle orbite così nere e vuote allo stesso tempo (pp. 78.iv, 80.ii e iv, 82.iii-v), chiusa con la risata ebete da inquietudine assicurata… ma non rassicurante
Molto bella anche la pozzanghera nera in piena piovosa landa inglese di pag 86, attraverso la quale il buco nero del fantaspazio riprende contatto con gli orrori più classici dylaniati, tastando da subito la fangosa Terra…
….dove gli incubi vogliono inevitabilmente unirsi a noi umani: per dar linfa a nuove storie ? Per diventare una nuova famiglia, nell’inferno annunciato della fase 2
Alla prossima lametta l’ardua sentenza.
ALOHA PRORAZOR
(barbieri assassini a domicilio)